Tra ortodossia linguistica e ideologia: il femminile sovraesteso
Il femminile sovra-esteso è la nuova imposizione dell’Università di Trento nella lingua italiana? No, è politica ed intende semplicemente dare importanza e visibilità ad una categoria.
Ma ricordiamoci che la lingua è sempre stata ideologica in quanto emblema della comunicazione stessa.
Il 28 marzo 2024 l’università di Trento ha varato il proprio regolamento di Ateneo utilizzando il femminile sovraesteso, scatenando così un putiferio. È stato additato come atto di marketing, innecessario, eccessivo o addirittura pericoloso.
Il rettore lo definisce «Un atto simbolico per dimostrare parità a partire dal linguaggio dei nostri documenti» rivolto a conformarsi alle linee guida sul linguaggio rispettoso adottate del 2017 e a proseguire l’impegno dell’Università per l’inclusività.
Sul sito dell’Università si possono trovare alcune delucidazioni in merito alla decisione intrapresa dal rettore. Citando: «Nella stesura del nuovo Regolamento abbiamo notato che accordarsi alle linee guida sul linguaggio rispettoso avrebbe appesantito molto tutto il documento. In vari passaggi infatti si sarebbe dovuto specificare i termini sia al femminile, sia al maschile. Così, per rendere tutto più fluido e per facilitare la fase di confronto interno, i nostri uffici amministrativi hanno deciso di lavorare a una bozza declinata su un unico genere. Hanno scelto quello femminile, anche per mantenere all’attenzione degli organi di governo la questione. Leggere il documento mi ha colpito. Come uomo mi sono sentito escluso. Questo mi ha fatto molto riflettere sulla sensazione che possono avere le donne quotidianamente quando non si vedono rappresentate nei documenti ufficiali. Così ho proposto di dare, almeno in questo importante documento, un segnale di discontinuità. Una decisione che è stata accolta senza obiezioni».
Questa idea si inserisce nel solco già tracciato da altre iniziative “linguistiche” rivolte a mettere l’accento sull’importanza politica e sociale del tema di genere e dell’inclusività.
Sicuramente vi saranno note alcune iniziative proposte dal Treccani, tra cui quella di seguire anche per le terminazioni l’ordine alfabetico (dunque bella, bello ma direttore, direttrice) oppure quella di eliminare alcuni sinonimi offensivi per determinate parole.
Anche ilRagazzini bilingue inglese e italiano ha recentemente annunciato d’aver cambiato determinati esempi per renderli meno stereotipici (gli esempi al femminile non più relegati solo ad ambiti come la maternità o la cura della casa, l’uso di maschile e femminile nella traduzione di termini che in inglese non prevedono una distinzione lessicale tra generi).
Tuttavia il polverone alzatosi in questo caso ha avuto di certo dimensioni maggiori, probabilmente per via della “radicalità” della misura attuata.
Alla fine, se è Mario o Giovanna a cambiare la ruota di una macchina ci importa poco…quando però si parla di femminile sovraesteso (quindi per esempio: Buongiorno a tutte invece di a tutti), impatto è forte ed è normale che lo sia.
Vi dirò di più, non solo è normale che lo sia ma è auspicabile, proprio perché l’obiettivo primario dell’atto non era “riformare la lingua italiana” ma “inviare un segnale provocatorio”.
Ammettendo anche che l’intento fosse riformare la lingua italiana, l’Università non avrebbe avuto il diritto ed il modo di farlo.
È il caso qui di fare un brevissimo recap di storia della lingua comparata ed iniziamo con una domanda: sapete perché i francesi non parlano dialetto (neanche i nonni e i bisnonni)? Perché a differenza nostra il governo francese ha sin dal Seicento dato inizio a una politica di unificazione linguistica e di repressione delle varietà linguistiche differenti.
Nel 1635 l’Académie Française riforma il francese (ovvero la varietà linguistica parlata dal re e che lui decide di rendere quella ufficiale) e ne decide tutti gli aspetti grammaticali, creando un regolamento.
Eric Hobsbawm stima che, alla fine del Settecento, soltanto il 15% della popolazione del Regno di Francia parlasse correttamente francese. Dopo la Rivoluzione il governo iniziò a mettere in atto politiche linguistiche che miravano ad estirpare i patois e a promuovere l’uso della lingua francese.
Questo nella lingua italiana non è mai accaduto: ci sono state delle proposte da parte dei letterati (Pietro Bembo nel 500 e a seguire l’Accademia della Crusca con Leonardo Salviati e la realizzazione di diversi vocabolari a partire dal 1612) che sono state accolte negli anni come convenzioni scrittorie e fonetiche ma nessuno ha mai imposto (fatta eccezione per i regimi autoritari) l’uso di una variante rispetto ad un’altra.
Questa parentesi storica ci permette dunque di capire che nessuno ha il potere di decidere e legiferare sulla lingua italiana al giorno d’oggi.
Tenendo tutto ciò a mente andiamo adesso ad analizzare la petizione linguistica promossa da insigni professori e studiosi di alcune università italiane dal titolo Il “femminile sovraesteso”? No, grazie:
«L’oltranzismo politically correct fatto proprio dall’Università di Trento ingigantisce il problema anche per le sue inevitabili ricadute sociali: gli incasellamenti coatti, la cieca omologazione generale, l’assoggettamento al conformismo e il fanatismo ideologico (al punto da pretendere di cancellare d’un botto secoli di stratificazione linguistica e culturale) saranno sempre più spesso occasione di scatenamento, anche solo per un moto di reazione alla saturazione mediatica di temi ormai risaputi, di piccate o veementi manifestazioni di dissenso intellettuale, con gli inevitabili rischi di un ulteriore peggioramento della situazione.»
Come ben evidenziato dell’analisi di Vera Gheno per ilPost, il cancellare la storia della lingua o l’omologare la lingua italiana in virtù di un oltranzismo politically correct non è minimamente nelle mire dell’Università di Trento, che utilizza invece termini come atto simbolico, parità e linguaggio rispettoso.
Quella che veramente ha tutta l’aria d’essere la richiesta di legiferazione in merito alla lingua è invece quella che segue nella petizione:
«I sottoscritti si rivolgono al Governo e ai Ministeri più direttamente interessati (il Ministero dell’Università e della Ricerca, il Ministero dell’Istruzione e del Merito, il Ministero della Pubblica Amministrazione) perché esprimano un parere sulle linee guida approvate dal Consiglio di Amministrazione dell’Università di Trento, e chiedono al Rettore e ai competenti organi dell’ateneo tridentino di rimettere mano al Regolamento appena varato relativamente alle soluzioni “inclusive” adottate.»
Come precedentemente detto nessuno può imporre dall’alto politiche linguistiche di questo tipo e nessuno si è mai permesso di farlo fatta eccezione del regime Fascista, cui speriamo di non dover fare tristemente eco.
Personalmente nell’iniziativa dell’Università di Trento non vedo pericoli imminenti per la salvaguardia della lingua italiana, non quanti ne veda nel taglio dei fondi per l’Istruzione e nel totale disinteresse e disinvestimento verso le facoltà umanistiche.
L’azione come detto dal rettore ha un significato eminentemente politico. Se volessimo proprio ricercarne uno linguistico, per andare ad indagare l’origine del maschile sovraesteso (o non marcato) nella lingua italiana non avremmo che ipotesi.
Il Treccani in merito spiega chiaramente che in italiano il genere grammaticale maschile viene usato in modo “sovraesteso”, per coprire talvolta le funzioni che nel latino erano del neutro o per indicare gruppi misti maschili e femminili. Quale sia stata l’origine alla base dello sviluppo di questa convenzione scrittoria non è noto e non lo sarà mai. Come moltissimi cambiamenti linguistici si è diffuso grazie all’uso.
L’unica rimarca che si possa fare è sulla comprensibilità del testo, aspetto che a parer mio rende palese l’influenza che il nostro modo di parlare ha su quello di pensare e inoltre non credo che qualche vocale cambiata renda inaccessibile il testo (fatta eccezione per i dislessici sui quali, non avendo competenze, non esprimo giudizio).
Mi preme sottolineare però che nella storia della lingua italiana sono avvenuti moltissimi cambiamenti che hanno portato a una ri-standardizzazione del linguaggio e dunque alla coesistenza di differenti convenzioni scrittorie (per alcuni periodi). Giusto per fare un esempio nell’800 (quindi ben dopo la riforma della lingua italiana di Bembo) vi sono forme che ancora oscillano nell’ortografia come il ricorso a ‹j› sia come compendio di -ii, sia per indicare la semivocale (perfino Leopardi e Manzoni mostrano incertezze nell’uso).
Sofia Seghesio
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