Esplorazioni Creative e Progettazione Urbana Inclusiva: dialoghi con Eleonora Sabet e Cristiana Mustaro al Meteore Fest
Dopo il nostro primo incontro con alcuni dei protagonisti del METEORE Fest al BASE Milano, abbiamo proseguito con altri artisti presenti all’evento, tenutosi dal 21 al 29 giugno 2024.
Da un lato, Eleonora Sabet, insieme all’Archivio Omologie (CIG), ha guidato il laboratorio creativo Archiviotopia: sperimentazione collettiva di materiali d’archivio.
Qui i partecipanti hanno esplorato il riutilizzo di materiali d’archivio, creando poster unici con fotografie d’epoca, documenti storici e altri materiali provenienti dall’archivio di Omologie, reinventati in modi creativi e innovativi.
Dall’altro, Cristiana Mustaro ha moderato l’evento Fare città inclusive, una tavola rotonda incentrata sulla presentazione del libro La città femminista di Leslie Kern, edito da Treccani Libri. La discussione ha trattato temi cruciali sulla progettazione urbana inclusiva, ponendo l’attenzione sulle esigenze di donne e comunità marginalizzate.
Queste interviste ci offrono uno sguardo approfondito sulle esperienze e riflessioni di Eleonora Sabet e Cristina Mustaro, mostrando come l’arte e la progettazione urbana possano contribuire a creare un mondo più inclusivo e attento alle diversità.
Siamo qui con Eleonora Sabet. Come nasce l’idea di questo progetto?
In realtà, l’idea di questo progetto nasce dalla mia pratica creativa. Già come persona sono una visual artist e lavoro tanto sia con la fotografia che con altri mezzi come scrittura a mano, collage, eccetera. La collaborazione nasce dall’idea di poter creare dei collage tutti insieme con l’Archivio, che è un tema molto importante per me, un archivio storico appunto, in questo caso molto rilevante, e di dargli una nuova vita. Quindi l’idea è un po’ quella di fare qualcosa tutti insieme, visto che siamo anche in tanti oggi, 40 persone che metteranno mano su dei file, sull’archivio che nessuno ha mai visto, comunque non è noto, dargli una vita nuova. Quindi un po’ l’idea è questa, una cosa un po’ collettiva.
Questa idea di collettività secondo te poi si può tradurre anche al di fuori del contesto artistico? Questa esperienza si porterà anche fuori una comunità? Verrà esposto altrove?
Magari, sisi. Nel senso che secondo me sicuramente porterà anche a una riflessione, considerando che sarà già una rielaborazione di quello che esiste. Però sicuramente le persone che non hanno mai visto questi tipi di materiali si chiederanno magari per quale motivo quella persona ha deciso di mettere lì quell’immagine, la scelta della selezione delle stesse persone che sono venute qui al workshop. Quindi secondo me sarà un insieme di riflessioni. È un po’ un gioco di parole strano, però le persone che lo guarderanno rifletteranno su ciò che hanno fatto gli altri e quindi diventa anche lì una cosa più collettiva, più di catena. Perciò probabilmente sì, spero. E credo anche che la reazione sarà abbastanza normale. Anch’io quando ho visto per la prima volta l’archivio mi sono messa a fare un sacco di pensieri, anche paranoie mie personali. Ovviamente faccio parte della comunità, quindi mi sono interrogata su una serie di cose e per me sarà molto curioso vedere oggi come delle persone che non conosco si metteranno a fare questa cosa di assemblare immagini, parole; Perché abbiamo tante parole, abbiamo messo tanti articoli, tanti titoli. I titoli sono molto pesanti, quindi sono curiosa di vedere anche chi avrà il coraggio di prendere quelle cose un po’ più pesanti, non so come dire. Quindi sì, sicuramente ci sarà un po’ di trasporto nella situazione.
Il passato lo vedi come passato? Cioè, questi messaggi, questi titoli duri che vedi, fanno parte ormai di un passato che non c’è più oppure il passato e il presente stanno ritornando ad essere una cosa sola?
Beh, dal mio punto di vista, magari è cambiato il modo di utilizzare le parole. Alcune persone le usano ancora oggi queste parole. Quindi assolutamente, in parte siamo andati avanti, in altre parti sicuramente no. Però sono dell’idea che al giorno d’oggi sia necessario utilizzare queste parole come appropriazione, magari il termine. Io non vado a prendere dal giornale quella parola perché la vedo come un insulto, ovvio che è un insulto, però non la inserisco nel collage per insultare perché sarebbe un controsenso, ma per riprendermi quella parola lì e dire io posso dirlo, sono io. Quindi posso tranquillamente dirlo. Tipo LIFE WORD non lo so. Aldilà di questo, non è che sia cambiato molto. Sicuramente è cambiata la percezione di molte persone, che è già qualcosa di positivo, però c’è tanto da fare. Probabilmente magari rivedendo anche questi tipi di materiali qualcuno qualche domanda se la fa. Io ho ripensato anche ai miei nonni, a mia mamma, chissà che penseranno nel vedere ciò. Non c’è bisogno di molta intelligenza per capire che siano sbagliati alcune cose, cioe etero o non etero.
Intervista a Cristiana Mustaro: Ripensare le Città per un Futuro Inclusivo e Femminista
Partiamo dal titolo dell’evento Fare città inclusive, e del libro la città inclusiva, cos’è una città non femminista?
Una città non femminista è una città che è stata costruita e pensata semplicemente da maschi. Ciò che oggi è considerato la norma, come sono state costruite le città nei secoli precedenti, è basato sulle regole dell’uomo bianco etero. Non sono state pensate per tutte le altre persone. Parliamo di donne, uomini non normodotati, stranieri, bambini. Una città non inclusiva è una città che non pensa a tutte queste persone marginalizzate.
Nella città femminista hai trovato una probabile risposta al cambiamento oppure più degli spunti?
Si sicuramente. Quello che fa Leslie Kern nel suo libro è analizzare i disagi che ha riscontrato nella sua città – Toronto in Canada – durante i suoi vari status di donna nella vita: da bambina, da ragazza, donna incinta, e donna con un bambino. Dando poi degli spunti su come migliorare, analizzando le mancanze di una città che non è stata accogliente per lei. Se analizzi gli errori, puoi migliorare.
Hai detto che lei ha analizzato Toronto. Ma queste criticità sono presenti in tutto il mondo oppure sarebbe meglio analizzare le diverse città con diverse criticità?
Ogni città ha delle specificità territoriali. È meglio analizzare città per città, perché ognuna ha una sua diversità, una propria struttura urbanistica e una propria storia. Non si vuole cancellare la storia o cambiare totalmente la struttura della città, ma partire da quella per poi far crescere altro. Ogni città ha bisogno di una propria progettazione.
Inoltre ci tengo a dire che faccio parte di Rebelote Design Inclusivo, un’associazione culturale che si impegna nella divulgazione di buone pratiche progettuali di design inclusivo.
E siete a Milano oppure siete una realtà itinerante?
Noi operiamo in tutta Italia e, direi, anche nel mondo. Non abbiamo una sede fissa per il momento, ma ci muoviamo per diversi eventi. Quindi si siamo itineranti.
Ah ecco, siccome LA TESTATA è di Napoli, quindi…
Io sono di Sapri, pensa un po’. Ma attualmente al sud non ci siamo mossi, ma chissà, mai dire mai.
Al sud ci sono più restrizioni rispetto al nord?
Allora, penso che questa dicotomia tra città e campagna ci sia sempre. Vengo da un paesino del sud, come ho detto prima, Sapri, e c’è sempre stata questa dualità. Le statistiche mostrano che molte persone, anche queer, dalla campagna si spostano in città. Bisogna domandarsi il perché di questo nomadismo. Forse perché in città si sentono più al sicuro, più inclusi, si identificano più nell’ambiente urbano. Sarebbe bello superare questa differenza, in modo che tutti si sentano a casa propria ovunque scelgano di vivere.
Arianna D’Angelo
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Foto di Gabriele Puglisi