Fedra: l’amore, l’ossessione, il chiedersi cosa accade
L’opera andata in scena ieri per la rassegna Pompeii Theatrum Mundi 2024 è la ben nota Fedra.
Euripide rivisitato quel tanto che basta, qua e là un particolare moderno visibile soprattutto nell’utilizzo di alcuni modi di vestire.
Paul Curran, regista scozzese porta a Pompei, in ambiente che potrei definire quasi naturale per un’opera come la “Fedra”, il furor d’amore da parte di una donna vessata per volere di una dea.
La domanda che ci poniamo non è “chi è Fedra?”, piuttosto perché prova quello che prova. Un uomo, un figlio illegittimo di suo marito che la scansa, la rigurgita violentemente e lei, pedina infame della vendetta. Fedra appare come una madre, è questa la sensazione che ho provato quando Alessandra Salamida ha presentato il personaggio. Una madre il cui unico figlio è il ventre sensualmente oppresso dal desiderio. Si muove fitta con le mani simulando il contorcersi dello stomaco, parla con vari toni alla sua fidata nutrice, Gaia Aprea che quasi cantilenando, tesse involontariamente la fine della sua amata Fedra.
“Se avessi avuto ragione, ora sarei considerata saggia”, dice la nutrice.
Ed è proprio così, siamo saggi solo se il prossimo ci conferma ciò che stavamo pensando.
Ippolito, infantile e devoto, si muove su tutta la scena maledicendo l’universo femminile, sugli spalti risatine, come se la vendetta di Fedra potesse essere considetrata perenne, reale, umana. Un simbolo della cattiveria della donna. Non dimentichiamo che a giocare la partita, qui, sono due matrone dell’Olimpo. Afrodite, insoddisfatta e vendicativa compie il destino della povera Fedra, sorella di Arianna e figlia della donna che tanto amò un toro. Compie il distino infausto del furor che oggi più che mai non riemergerà nemmeno sulla Luna, come Orlando tentò in ardua impresa.
Ecco, però, che la voce coinvolgente e profonda del padre, Teseo, figlio di Egeo, scocca dalle tenebre. Ribadisce di sentire la morte sopraggiungere, un dolore, poi due, poi l’immensità del potere. Maledire suo figlio, pensare la propria vita senza Fedra, dimenticare di essere uomo. Teseo e suo figlio Ippolito ci commuovono nella vanità di essere umani, mortali, soggetti ai capricci di chi più in alto decide e, quando arriva il momento non può nemmeno guardarci, come Artemide, che rossa si allontana dal prossimo cadavere, già vittima delle volontà appartenenti a una forza superiore.
La regia di Curran è dinamica su Ippolito, più statica su Fedra e la nutrice, avanza nel tripudio di colori quando Ippolito festeggia la dea Artemide e si incupisce quando la nutrice e le ancelle circondano la propria signora. Una dicotomia giusta, ponderata, che verrà definitivamente spezzata quando Teseo e il suo strascico di dolore spezzeranno le catene tra dinamismo e staticità per fare spazio alla confusione. Se non conoscessimo la trama, saremmo capaci di carpirla del tutto, agevolati dai toni e le ombre.
Fedra a Pompei è una serata di riflessione, pungente e riflessiva, di tanto in tanto difficile da digerire, non si sa se più per le sensazioni scaturite o per quelle già introiettate.
Benedetta De Nicola
FEDRA
Ippolito portatore di corona
di Euripide
traduzione Nicola Crocetti
regia Paul Curran
con (in ordine di apparizione) Ilaria Genatiempo (Afrodite), Riccardo Livermore (Ippolito), Sergio Mancinelli (Un servo), Gaia Aprea (Nutrice), Alessandra Salamida (Fedra), Alessandro Albertin (Teseo), Marcello Gravina (Messaggero), Giovanna Di Rauso (Artemide)