La docuserie su Yara Gambirasio sta dividendo l’opinione pubblica
La nuova docu-serie di Netflix sul caso Yara Gambirasio sta facendo discutere, anche e soprattutto a causa dei dubbi sollevati sulla colpevolezza di Massimo Bossetti.
La sera del 26 novembre 2010 la giovanissima Yara Gambirasio si recò nella palestra che frequentava regolarmente, poiché doveva consegnare uno stereo per un saggio. Da quel momento, si perse ogni traccia di lei, dando vita ad un’indagine estremamente intricata.
La docu-serie Netflix “Il caso Yara: oltre ogni ragionevole dubbio” ripercorre la sua vicenda, proponendo per la prima volta un’intervista esclusiva a Massimo Bossetti, condannato all’ergastolo per il suo omicidio. Ciò che sta facendo maggiormente discutere, tuttavia, è l’impronta innocentista della serie, che getta delle ombre sulla sentenza. C’è, infatti, chi sostiene l’ipotesi di un errore giudiziario, credendo all’innocenza di Bossetti, che è arrivato ad affermare: “dovevano inchiodare qualcuno e hanno inchiodato me”.
Dal canto suo, invece, la famiglia della vittima ha preferito mantenere il totale riserbo. Secondo l’avvocato dei Gambirasio, infatti, “la famiglia ha ritenuto non fosse opportuno partecipare a questi spettacoli tv sulle vicende giudiziarie”.
Nei primi episodi, il documentario sottolinea come attorno a questo caso si sia sviluppato molto sciacallaggio mediatico, soprattutto nei confronti della famiglia Gambirasio. L’attenzione mediatica si è accentuata ulteriormente quando, nel febbraio del 2011, il corpo della vittima è stato rinvenuto casualmente in un campo in aperta campagna. L’autopsia permise di individuare, sugli slip della vittima, una traccia di DNA maschile, ribattezzato “ignoto 1”. Per individuarlo, vennero effettuati migliaia di prelievi, dando vita ad una vera e propria “caccia all’uomo”. Si riuscì a risalire a Giuseppe Guerinoni, un uomo della zona che tuttavia era deceduto da tempo. Riesumando la sua salma, si scoprì che si trattava del padre biologico di “ignoto 1”, pur non avendo figli legittimi che corrispondessero alla traccia. Si scavò nel suo passato, rivelando una sua relazione extraconiugale con una certa Ester Arzuffi. Un breve controllo sui figli della donna portò alla tanto agognata verità. “Ignoto 1” aveva finalmente un nome e un cognome: Massimo Bossetti.
Il 16 giugno del 2014, in diretta nazionale, Bossetti venne quindi arrestato e i giornalisti iniziarono a sezionare ogni dettaglio della sua vita, alla ricerca di punti oscuri. La sua posizione si aggravò soprattutto quando confermò di passare abitualmente, a bordo del suo furgone bianco, nelle zone frequentate dalla vittima. Proprio a questo proposito, le autorità diffusero alla stampa un video in cui si vede il suo furgone bianco mentre gira decine di volte intorno alla palestra di Yara. Tuttavia, questo video si rivelò falso e montato allo scopo di dimostrare la sua colpevolezza.
Il fulcro di questa nuova docu-serie è la questione del DNA. Sin dal primo processo, infatti, la difesa ha chiesto di poter analizzare nuovamente la traccia di DNA di “ignoto 1”. Il pm Letizia Ruggeri, tuttavia, ha sempre sostenuto che un’ulteriore analisi non fosse possibile, in mancanza di campioni disponibili. Nel 2019, tuttavia, vennero individuati alcuni campioni utilizzabili e venne rilasciata l’autorizzazione per il riesame. Qualche giorno dopo, tuttavia, questi campioni vennero trasferiti in un’altra sede e, in mancanza di refrigerazione, si deteriorarono. Ciò ha portato, recentemente, Letizia Ruggeri ad essere indagata per frode processuale e depistaggio.
Oltre alla polemica del DNA, nella docuserie vengono sollevati altri dubbi sulla colpevolezza di Bossetti. Le microfibre rinvenute sul corpo di Yara, ad esempio, sono sì riconducibili ai sedili di un furgone compatibile con quello di Bossetti, ma non si può essere certi che si tratti dello stesso furgone. Inoltre, è stato appurato che, la sera del delitto, le celle telefoniche che hanno localizzato Bossetti nella stessa area di ricezione della palestra di Yara, sono in realtà attive anche all’interno dell’abitazione di Bossetti.
“Il caso Yara” si concentra poi su alcune piste alternative che stanno facendo molto discutere. Una di esse riguarda l’impresa edile dei fratelli Locatelli, molto attiva nella provincia di Bergamo. Proprio un mese prima della scomparsa di Yara, i Locatelli vennero indagati per riciclaggio di denaro e, secondo diverse fonti, proprio Fulvio Gambirasio era stato chiamato per rilasciare una testimonianza sul caso, lavorando nello stesso settore. Il rapimento di Yara sarebbe quindi una specie di vendetta, seppur Fulvio Gambirasio abbia negato categoricamente di conoscere i Locatelli. Un altro dubbio viene sollevato riguardo alla testimonianza di un vicino di casa dei Gambirasio, che dichiarò di aver visto Yara in compagnia di due uomini sospetti, proprio la sera della sua scomparsa, per poi ritrattare tutto e cambiare città. Infine, la pista alternativa più interessante raccontata da Netflix riguarda l’insegnante di ginnastica di Yara, Silvia Brena. Sul polsino del giubbotto della vittima venne infatti rinvenuta una traccia del DNA della sua insegnante, che tuttavia aveva affermato di non averla incontrata la sera della scomparsa. Inoltre, quella stessa sera, Silvia Brena inviò un messaggio a suo fratello, per poi cancellarlo e, di ritorno a casa, suo padre la sentì piangere, nonostante nessuno ancora sapesse della scomparsa di Yara. Questa pista non venne mai approfondita, insieme ad alcune versioni contrastanti da parte del custode della palestra.
La difesa di Bossetti, basandosi su tutti questi elementi, spera di arrivare ad una revisione del processo. La giustizia, dal canto suo, si è già espressa condannando all’ergastolo l’imputato, anche e soprattutto poiché (come sottolineato da diversi esperti) “non si è cercato un mostro, non si è presa una persona e poi si sono cercate le prove, è successo il contrario”. Bossetti è stato individuato, infatti, con un’operazione investigativa senza precedenti, analizzando migliaia di campioni e portando alla luce clamorosi retroscena. L’assenza di alibi e i numerosi indizi a suo sfavore hanno poi giocato la loro parte, in uno dei casi più dibattuti e controversi di sempre.
Stefania Berdei
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