Slavenka Drakulić, come se io non ci fossi: una Madre
Non ha mai pensato a lui come a un bambino, ma come a una malattia, a un peso del quale desiderava disfarsi, un parassita che voleva rimuovere dal proprio organismo
(Slavenka Drakulić, Come se io non ci fossi)
Come sottolinea Virginie Despentes in King Kong Theory: ‹‹la maternità ti classifica, ti rassicura, quasi››. Non per tutte le donne la maternità ‘’rassicura’’, ma ti ‘’classifica’’ madre, in un contesto come quello dello ‹‹stupro di guerra››. È il caso di parlare di un romanzo perturbante e potente, di una scrittrice altrettanto potente che, mette al centro la Donna.
È il caso della scrittrice e giornalista croata Slavenka Drakulić con Come se io non ci fossi (Kao da me nema). Autrice di opere come Mileva Einstein, L’Accusata, Dora e il Minotauro e la Donna Invisibile, con il romanzo Kao da me nema va oltre: parla della guerra in Bosnia del 1992.
Le mani non sono forse il primo volto della madre? dice Recalcati. La prima collocazione che ha il bambino quando nasce, è sul petto della madre, che si uniscono in un abbraccio. Il bambino è sdraiato nudo sul suo lettino, se ne sta tutto tranquillo con le braccia e le gambe spalancate, come se si arrendesse. (corsivo mio).
Come se si arrendesse, è questa la prima immagine che Slavenka Drakulić mette in evidenza al lettore, un bambino indifeso che è consapevole di possedere dentro di sé la ‹‹contaminazione››.
Il 27 marzo 1993 nell’ospedale di Stoccolma una donna di nome S., partorisce un bambino. Quel bambino che dovrebbe essere suo figlio, per la protagonista è un ‹‹essere senza nome che le è venuto fuori dopo nove mesi››.
Fin dall’inizio assistiamo alla ‹‹repulsione›› che prova S., in seguito alla nascita di quel bambino, una nascita che l’ha ‹‹sollevata››, anche se avrebbe preferito che fosse nato morto o che l’uccidesse lei con le proprie ‹‹mani››. Quelle stesse mani che Recalcati mette in scena, le mani che ‹‹salvano››, le mani che il bambino cerca nei primi anni di vita. Qui ci sono mani che vogliono uccidere. Quelle stesse mani che portano Medea a uccidere i propri figli. S., affronta in questo modo la nascita di quel bambino senza nome, non si lascia ‹‹classificare›› con il simbolo di Madre. Durante la narrazione, scopriamo il passato di questa donna, e il perché di questa repulsione.
È una narrazione lenta ma dinamica. Una narrazione che si lascia andare a sbalzi di cuore, colpendo il lettore. Ci troviamo in Bosnia, una guerra che non si lascia dimenticare, che non è possibile dimenticare. Una guerra che, purtroppo, sta accadendo ancora oggi, in Ucraina e in Palestina. Una guerra che colpisce, soprattutto bambini e donne. Le donne venivano trattate come proprietà privata, e lo stupro aveva lo scopo di intimorire, umiliare e disonorare, dice Christina Lamb.
È in questo contesto che S., subisce il disonore, attraverso lo stupro. In questo contesto viene ‹‹contaminata››. Il ventre della donna viene contaminato dal ‹‹sangue serbo››. Le donne che vengono stuprate e ingravidate nella guerra nel 1992, affrontano traumi indicibili, affrontano uno ‹‹stigma›› da parte della società e anche da parte della famiglia. ‹‹Questo è il primo segnale che il suo corpo non appartiene più solo a lei››, il corpo quando subisce uno stupro, si distacca dall’appartenenza di chi lo possiede, viene destinato ad altri. S., un’insegnante che viene strappata dal suo villaggio, è destinata ad entrare negli orrori che la guerra permette, è destinata in quella ‹‹stanza delle donne››, in cui i ‹‹soldati serbi ubriachi›› danno sfogo ad ogni tipo di sadismo.
È la notte che prende vita l’incubo per le donne. La vergogna prende il sopravvento quando queste donne vengono disonorate nell’intimo, poiché se si venisse a sapere del loro disonore, ‹‹non potranno più tornare al loro villaggio, dai mariti››. È ancora una volta a risaltare il corpo femminile: quello che contengono, il loro involucro.
Lo stupro, unitamente a torture e sevizie, non solo feriva e umiliava la donna, ma colpiva anche i suoi congiunti, spesso obbligati ad assistere, e l’intera comunità, sostiene Simona Meriano. S., dal momento in cui scopre di essere incinta al ‹‹campo profughi›› pensa a quel bambino come ‹‹una malattia››, un ‹‹peso›› che desidera togliere, non desidera lasciarsi classificare. La guerra le ha rese madri, le ha rese incatenati ai ‹‹figli dell’odio››. La pulizia etnica, in questo caso, ha portato ai soldati serbi, il metodo per far continuare la ‹‹discendenza››, tramite il ‹‹seme serbo››. La contaminazione attraverso il sesso forzato non viene percepita dagli uomini violentatori come un pericolo. Il modo di punire una donna, in guerra, in uno stupro di massa, è proprio rendendole Madri.
La maternità porta a S., a rivivere lo stupro e a guardare quel figlio con ‹‹repulsione››. Questo sentimento che S., prova guardando il figlio ‹‹sdraiato nudo sul suo lettino››. Il primo pensiero di S. è la morte, la morte di quell’essere nel suo ventre. È consapevole del fatto che darà suo figlio in adozione, facendolo diventare un ‹‹piccolo sloveno››. E in una mattina, S., si lascia classificare, si lascia ‹‹rassicurare›› dal simbolo della maternità. Lascia che il corpo del bambino abbia la sua collocazione: sul petto, sul collo, sul seno della madre.
Curiosità: In un altro romanzo si parla di questo tema
EMILIA PIETROPAOLO