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È meglio il libro, parte 2

Negli anni, quanti film che sono stati tratti da libri abbiamo visto? E quante volte abbiamo detto “È meglio il libro”? Continuiamo i nostri confronti…

Ecco la seconda parte:

Il ritratto di Dorian Gray

Dorian Gray è un film del 2009 diretto da Oliver Parker. I protagonisti sono Ben Barnes nel ruolo di Dorian Gray e Colin Firth nei panni di Lord Henry. Il film è una rivisitazione del romanzo, per quanto sia comunque abbastanza fedele al 70%, ci sono atmosfere molto più gotiche e marcate rispetto al romanzo. Alcuni momenti leggermente modificati, ma questo venne affermato già in precedenza. La parola “rivisitazione” fa comprendere ciò, quindi sono stati onesti fin da subito. Ci sono diverse differenze, in questo caso volute tra romanzo e film. Oliver Parker ha volutamente dato un’atmosfera cupa, gotica, horror. A partire dall’aspetto differente del personaggio. Nel romanzo Dorian è biondo con occhi azzurri, la tipica super bellezza celestiale ai tempi di Oscar Wilde. Nella Londra di fine 1800 e inizi 1900, la bellezza più pura è quella molto simile agli “angeli”. Nel film vediamo come il fascino pericoloso è invece capelli neri e occhi scuri tendenti al nero, è Ben Barnes incarna perfettamente questa bellezza affascinante e pericolosa allo stesso tempo.
Nel romanzo Dorian ama l’arte e la profondità inizialmente, infatti si innamora dell’arte di Sybil Vane, mentre nel film è interessato solamente alla sua bellezza. Nel romanzo lui si innamora di quella che crede la vera personalità di lei, non tanto della sua bellezza. Dorian la lascerà per questo motivo, un motivo specifico che riguarda la “perdita” della sua arte, quindi della persona che lui credeva di aver conosciuto. Nel film per un altro motivo. Nel film vengono mostrati diversi quadri/disegni di Dorian, nel romanzo sono solamente due. Il quadro non viene mai esposto, nel film invece sì. Lord Henry non lo vedrà mai da mutato, nel film invece sì.
Certi sottintesi nel romanzo sono appunto nascosti tra le righe, in quanto nell’epoca in cui viveva Oscar Wilde, un’epoca bigotta e che non solo metteva in galera, ma condannava anche a morte, non poteva di certo esporre chiaramente. Mi riferisco non solo a certi momenti di piacere e lussuria, ma anche al legame omosessuale che si comprende, tra le righe, tra il pittore e Dorian Gray.
Nel finale del film viene cambiato il significato: nel romanzo Dorian non si pente, non completamente, cerca solamente di redimersi rendendosi conto che Henry l’ha corrotto. Ma allo stesso tempo non si pente delle scelte ormai compiute e cerca di cancellare le prove distruggendo il quadro. Nel film invece si pente profondamente delle scelte che ha compiuto, accusando Lord Henry e distruggendo il quadro. Il regista probabilmente l’ha modificato tenendo conto della nostra epoca. Wilde aveva una visione cinica della vita, il regista tuttavia tenta di dare una speranza di redenzione anche per persone come “Dorian Gray”.

Il mercante di Venezia

Michael Radford, il regista de Il postino, si lancia in una delle avventure più difficili dal punto di vista cinematografico: interpretare un classico della letteratura e del teatro cercando di non finire vittima del già visto e del già sentito. Un tentativo che il modesto regista, qui alla prova con la diciassettesima rivisitazione filmica del classico shakespeariano, non riesce a sostenere in maniera del tutto convincente. Sotto il profilo dell’intrattentimento popolare il film non è sgradevole, ma se si pretende qualcosa di più da una interpretazione seria di Shakespeare, la situazione che il film ci prospetta dà l’impressione di una rappresentazione di maniera mascherata dietro gli orpelli del realismo geografico e vivificata unicamente da un cast di primo piano. Certo, gli spettatori non hanno l’obbligo di una laurea in letteratura inglese per vedere un film (e decretarne il successo, si pensi a questo proposito al successo del melenso e patinato Shakespeare in love), ma i limiti di un film come Il mercante di Venezia sono talmente visibili da essere propagandati invece come pregi e tocchi di raffinatezza. La lista degli adattamenti cinematografici di Shakespeare è davvero inesauribile e ha prodotto una quantità impressionante di dibattiti, libri e tesi universitarie. Se si sceglie di andare a vedere questa co-produzione italo-britannica bisognerebbe mettersi subito il cuore in pace: Radford ha a sua disposizione degli elementi talmente importanti che sicuramente potrà gestirli nell’unico modo che conosce, cioè incanalando scene madri, talenti recitativi e momenti allegorici in un regime descrittivo ad alto tasso di prevedibilità; e, in effetti, si comporta come da copione: costruisce un set partendo dagli ambienti naturali (ambientare il mercante nella vera Venezia dovrebbe servire a conferire realismo alla vicenda, ma contribuisce unicamente a sottolineare il sapore griffato e inautentico dell’operazione); fornisce una lettura fedele e perfino scolastica del testo (il che non sarebbe di per sé un fatto negativo); “comprime” la prova di Al Pacino, un attore istintivo e sanguigno, portandolo, per così dire, a mitigare i toni dell’usuraio Shylock. Le scenografie curate e i ricchi costumi sono al servizio di una co-produzione che impone di non rischiare: dietro la superficie patinata e composta manca lo spazio per l’invenzione, e perfino per la più beneaugurante imperfezione. Radford sa che il pubblico verrà a vedere soprattutto Pacino (il vero motivo per cui è stato fatto il film), e per questo lo mette al centro della performance circondandolo di un cast efficace ma sostanzialmente anonimo, anche se Jeremy Irons e Lynn Collins si comportano da bravi professionisti mentre Joseph Fiennes è quasi inespressivo. Sembra quasi che tra gli interpreti e il testo sopravviva una distanza troppo calcolata, e in particolar modo il dolore di Shylock sembra vissuto da Pacino con una nota di ambiguità. Ad ogni modo, se il lavoro degli interpreti è, tutto sommato, l’elemento ancora interessante del film (alcuni lampi dell’interpretazione di Pacino restituiscono nondimeno la dimensione più appassionante del personaggio shakespeariano), a raffreddare il risultato espressivo è una sensazione di composta freddezza. 

La lettera scarlatta

Nel film con Demi Moore l’enfasi viene posta più sull’erotismo e la passione che travolgono la protagonista ma viene evidenziato anche il bigottismo sadico e primitivo della società che la circonda. A differenza del film, il romanzo inizia la propria narrazione con l’immagine del patibolo puritano con cui confrontarsi, cioè con quel tribunale moralistico che induce il lettore a ripensare i concetti di colpa, giustizia e perdono. Tutta la storia viene spesso analizzata dalla prospettiva imbevuta di quella cultura puritana della New England, e lo sviluppo della trama rimescola queste coordinate, rielaborando in uno strano gioco di ruolo, da una parte i sentimenti e la maturazione personale dei diversi protagonisti, e invece dall’altra parte la reputazione e l’immagine pubblica che offrono alla comunità. La differenza di questi due livelli è una chiave che tende a decostruire la bigotteria di quella morale puritana, che spesso – come si sottolinea in più parti – eccede non solo nella assurdità delle proprie regole e nella severità di giudizi gratuiti, ma proprio in un eccesso di fanatismo, una visione mitologica e irrazionale che spesso è causa delle peggiori barbarie: per esempio in modo sarcastico più volte si parla di forze diaboliche o magiche per spiegare determinati fenomeni, ed è proprio da questa assurda accusa di stregoneria, che verranno inflitte le più atroci condanne da quei tribunali puritani.

The Help

Il libro The Help ha venduto 10 milioni di copie nel mondo, divenendo un bestseller, rimasto nella classifica del New York Times per ben 108 settimane. La trama di The Help ha conquistato i lettori che hanno amato il personaggio di Eugenia Phelan, detta Skeeter, aspirante scrittrice, dal carattere forte e dalla personalità esuberante. Nel film, come nel romanzo, viene raccontata la storia di Jackson, cittadina del Mississippi, dove le donne che servono nelle case dei benestanti proprietari terrieri della zona decidono di raccontare la propria storia a Skeeter.
Il libro The Help è scritto con uno stile molto ironico, leggero e risulta un incredibile successo (non si deve dimenticare che si tratta dall’esordio letterario di Kathryn Stockett), caratteristiche che vengono riprese bene nel film.
La pellicola del 2011 ha vinto l’Oscar per la sua attrice non protagonista, Octavia L. Spencer, che ha interpretato meravigliosamente il personaggio di Minny Jackson.

La trama: a Jackson, in Mississipi, quella del 1963 è un’estate torrida ed Eugenia, dopo il suo percorso di studi, torna nella casa dei suoi genitori, ricchi proprietari terrieri. La cittadina è molto arretrata, le sue amiche sono tutte sposate, con figli al seguito e lei risulta l’unica ancora single. Eugenia ha ben altre aspirazioni nella vita e prima di mettere su famiglia vuole sentirsi realizzata a livello lavorativo. Accetta così una piccola collaborazione con il giornale locale che le offre una rubrica di consigli per casalinghe, mentre lavora per un importante progetto editoriale di una casa editrice di New York.
In Mississipi la situazione è piuttosto arretrata, segregazione e razzismo sono caratteristiche ben visibili e sotto gli occhi di tutti. Le donne afroamericane a Jackson lavorano come domestiche nelle case delle famiglie benestanti, costrette a subire le peggiori umiliazioni, ad avere bagni separati per persone di colore e a essere pagate una vera miseria.
Skeeter decide così che sarebbe interessante per il suo progetto parlare con le domestiche, farsi raccontare le loro storie e portare alla luce le vere condizioni di queste lavoratrici.
Inizia così a parlare con Aibileen, domestica nella casa di un’amica, la quale coinvolgerà a sua volta Minny, appena licenziata dalla casa di una ricca famiglia del luogo. La direttrice della casa editrice, Miss Stein, dopo l’invio di alcune interviste si incuriosisce e chiede a Eugenia di trovare più domestiche in modo da avere un racconto più massiccio che potrebbe diventare un libro. Un’impresa epica per la giovane scrittrice dato che in questo periodo le violenze nei confronti della popolazione afroamericana sono all’ordine del giorno e tutti sono impauriti dalla situazione.
Il libro The Help è stato pubblicato nel 2009 negli Stati Uniti ed è giunto in Italia nel 2011, per la casa editrice Mondadori.

Il film è una buona proposta, i personaggi e le azioni sono rispondenti al bestseller, ma il libro The Help è molto meno politically correct. Le storie che vengono raccontate sono più forti e hanno una portata più struggente rispetto alla pellicola cinematografica.
Anche i personaggi risultano meno edulcorati nel libro (pensiamo soprattutto alla madre di Skeeter), ma ovviamente non si poteva pensare a una trasposizione fedele in ogni minimo dettaglio.
Sebbene il libro risulti più forte rispetto al film, la pellicola è un ottimo adattamento che non stravolge personaggi e luoghi descritti, ma che risulta anche fedele alle scene salienti del romanzo.
Un film incentrato sulle donne, la segregazione razziale e le violenze contro gli afroamericani negli anni ’60, che riprende con cognizione di causa le tematiche principali di un libro divenuto un caso letterario.

Vi aspetto al prossimo articolo con ancora tanti altri confronti da analizzare!

Lucia Russo

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Lucia Russo

Lucia. Amante della luce per destino: nomen omen. Tuttavia crede che per arrivare a quella luce ci sia bisogno del caos e della contraddizione, scrutarsi dentro, accettarsi e avere una profonda fiducia in sé stessi. Il rimedio a tutto il resto: una buona porzione di parmigiana di melanzane.
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