Ma siamo sicuri che ci piaccia il mare?
Gli italiani in giro per l’Italia sono stati circa 20 milioni tra la seconda metà di luglio e l’inizio di agosto, ad affollare Liguria e Sardegna per il Centro Nord, e Campania e Sicilia per il Sud, con una predilezione particolare per la Puglia, lì in fondo.
Nell’estate del 2020, oltre il 90% degli italiani ha preferito trascorrere le sue vacanze in patria, spesso in regioni diverse da quella di residenza, ma spostandosi di poco, lasciandosi così aperta la possibilità di buttare un occhio verso casa, senza doversi allontanare troppo, con un misto tra timore e cautela.
Anche nel 2021 si è confermata la stessa preferenza, con un 63,6% dei vacanzieri che si è recato fuori regione, ma non fuori dal Bel Paese, incrementando il fenomeno, ormai diffuso, del “turismo di prossimità”.
Ancor più che durante l’estate dello scorso anno, infatti, in quella appena trascorsa – già ricordata con un po’ di nostalgia – ci siamo sentiti liberi, alleggeriti da un peso che non sentivamo nostro e, un po’ a causa del caldo e un po’ per la necessità di “respirare”, ci siamo mossi.
Che fosse di pochi chilometri o ci fosse bisogno di ore di coda in macchina, di stipare le valigie tra i sedili del treno o di accontentarsi dei bagagli a mano da dieci chili – che poi dieci chili non sono mai – in cui tutto sta ben compatto e stretto stretto nelle cappelliere dell’aereo, quasi tutti siamo andati “da qualche parte”.
Come sempre, nel dibattito mare-montagna c’è chi ha scelto la montagna e chi invece il mare, con una preferenza netta – nessuno me ne voglia – verso quest’ultimo. Le spiagge si sono riempite di gente locale e di forestieri, tra vecchi abitudinari e sperimentatori. Lo testimoniavano i telegiornali e lo dimostrano oggi le statistiche, le stesse che purtroppo dovrebbero allarmarci. Così come allarmanti sono i risultati delle investigazioni di Greenpeace sulla biodiversità marina, ad esempio nel corso della sua spedizione nell’Adriatico “Difendiamo il mare”.
Perché a parte le feste in barca, la musica sulla spiaggia, i lidi in cui le sdraio non si contano neanche più, c’è una nuvola di plastica, lì accanto alla costa, fatta di bottiglie, buste, guanti… ed è proprio lì, a poche bracciate da noi, che avvolge la penisola, compromettendone la sopravvivenza.
«Si stima che ogni giorno finisca in mare una quantità di rifiuti in plastica pari al quantitativo trasportato da un camion» si riporta su “Il Giornale dell’Ambiente”. Probabilmente è simile a uno di quei camion che superiamo in autostrada mentre cerchiamo di raggiungere l’agognata meta delle vacanze.
E allora noi, che cerchiamo la limpidezza dell’acqua, i bei colori del tramonto quando il sole cala e si getta a capofitto su quella distesa brillante, noi che ci facciamo dondolare dal rumore delle onde e ci buttiamo dentro la metà dei nostri pensieri, siamo sicuri di saper rispettare il mare?
Amarlo significa percepirne la bellezza fino in fondo, quando le spiagge si svuotano come deserti; significa imparare a prendersene cura, quando rimaniamo soli e degli altri restano unicamente bicchieri usati, mozziconi di sigaretta, coppette di gelato, cadute passeggiando sulla riva, e bottiglie di birra, abbandonate guardando il cielo.
Pensiamo a cosa significa comprenderne la sofferenza, dando ascolto a quel grido muto di allarme e dolore. Facciamoci caso e i nostri rifiuti portiamoli con noi fino al cestino più vicino, anche se è un po’ lontano. Perché quando la stagione estiva finisce e le file di ombrelloni svaniscono, insieme alle impronte dei passanti, il suo lamento risuona forte. Ma noi l’anno prossimo, al mare, ci vogliamo ancora tornare.
Stefania Malerba
Foto copertina Sara Malerba
Leggi anche: Blue Bus, il mare al centro