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Campo di Battaglia di Gianni Amelio: la grandezza del cinema italiano a Venezia

Gianni Amelio ritorna al grande cinema con una impresa forte, epica, ma anche quieta, lenta.

Campo di Battaglia è un film di guerra senza neanche una battaglia ed è questo che lo rende grande.

Gianni Amelio presenta a Venezia il suo Campo di Battaglia, un’opera che afferma, colpisce e richiama standing ovation per la sua capacità di affrontare tematiche complesse, abbandonando le trame belliche più convenzionali per esplorare una guerra interiore e morale. Campo di Battaglia, infatti, adotta un titolo volutamente fuorviante: il film non offre battaglie epiche o eroici scontri tra eserciti. Al contrario, si concentra sul conflitto umano e psicologico di chi è chiamato a prendere decisioni impossibili durante una delle fasi più devastanti della storia: la fine della Prima Guerra Mondiale. Il dietro le quinte dell’eroismo bellico, quello dei grandi scontri raccontati dai libri di storia, è nella pena umana dei piccoli, degli “altri”.

Il cuore del film, che batte sempre nel posto e al ritmo giusto, è portato sul grande schermo dai due protagonisti: due medici militari, Giulio e Stefano, interpretati magistralmente da Alessandro Borghi e Gabriel Montesi. Amelio riesce a creare una narrazione intensa e densa di significato senza mai scadere nel moralismo, tratteggiando due figure che, pur agendo in modo diametralmente opposto, non possono essere giudicate solo come “giuste” o “sbagliate”. Il “buono” e il “cattivo” sono due concetti asettici che si allontanano dalla vita reale, dall’umanità che Amelio cerca e trova nella sua opera. Stefano è un fervente sostenitore dei valori patriottici e crede fermamente nella necessità di rimandare i soldati al fronte il prima possibile, anche a costo di ignorare il loro stato di salute mentale e fisica. Giulio, invece, si muove lungo una linea sottile tra compassione e ribellione silenziosa, aiutando i soldati a farsi del male per evitare di tornare a combattere, ponendo il loro desiderio di sopravvivenza sopra ogni altra cosa.

La scelta di ambientare gran parte del film in un ospedale militare non è casuale. Questo spazio chiuso, opprimente, riflette non solo le condizioni fisiche dei soldati ma anche la gabbia morale in cui si trovano i due protagonisti. La claustrofobia delle stanze diventa metafora del labirinto etico in cui sono intrappolati, con decisioni che hanno conseguenze devastanti sulle vite di molti. La guerra, così come rappresentata in Campo di Battaglia, è meno una questione di eroismo e più un campo minato di scelte senza vie d’uscita, dove ogni atto – sia esso dettato da pietà o da rigore – porta con sé dolore e tragedia.

Amelio è un regista gigantesco: nella lenta discesa psicologica, uno studio entomologico della mente dei personaggi, mostra il suo talento nel delineare la complessità dei suoi protagonisti, senza mai offrire una facile via d’uscita allo spettatore. Se da un lato Stefano incarna una visione rigida e senza compromessi del dovere militare, Giulio è una figura più sfumata, in bilico tra il ruolo di salvatore e quello di carnefice. Questa dualità trova eco nella scena d’apertura, in cui Giulio si taglia accidentalmente mentre si rade, un piccolo incidente che preannuncia il suo conflitto interiore: un uomo che tenta di “salvare” altri, ma che allo stesso tempo si trova a ferire se stesso, sia fisicamente che moralmente. La sua battaglia è insita, tragica, personalissima.

La svolta narrativa che introduce la pandemia della Spagnola aggiunge ulteriore peso drammatico. La comparsa del virus, che colpisce indistintamente soldati e civili, riflette in modo sinistro le recenti esperienze globali legate al Covid-19. Amelio sfrutta questa somiglianza con la nostra realtà per spostare l’attenzione dalle dinamiche della guerra alle forze più grandi e incontrollabili che regolano il destino umano. Qui, la guerra, con tutte le sue regole e gerarchie, appare quasi irrilevante di fronte alla furia di una malattia che non fa distinzione tra eroi e codardi, tra vittime e carnefici. I virus sono portatori inconsapevoli di uguaglianza e democrazia.

Nonostante la sua ambizione e l’indubbia maestria con cui Amelio porta sullo schermo la sua opera, chiaramente a lui molto cara, Campo di Battaglia non è privo di difetti. Alcuni subplot, come quello che coinvolge l’infermiera Anna, interpretata da un’attrice di talento ma purtroppo poco sfruttata, restano superficiali e non riescono a raggiungere la profondità emotiva e narrativa che meriterebbero. Il tema della discriminazione di genere, introdotto attraverso la figura di Anna, rimane ai margini della trama principale, un’occasione mancata per approfondire ulteriormente l’aspetto sociale e politico di un’epoca già così gravata da divisioni e ingiustizie.

Allo stesso modo, l’accenno alla discriminazione nei confronti dei soldati siciliani, costretti a restare più a lungo al fronte senza poter godere delle stesse licenze concesse ai soldati del nord, è un aspetto trattato con leggerezza, senza il respiro narrativo necessario a farne una componente significativa del racconto. Questi sono dettagli che, pur non togliendo merito alla forza complessiva del film, lasciano un retrogusto amaro, come se Amelio avesse voluto dire di più ma fosse stato costretto dai limiti del formato. Il film avrebbe dovuto ambire a una durata maggiore per poter parlare di tutto, per esprimersi completamente.

Il film osa e riesce a sorprendere, pur mantenendo un piede ben saldo nel cinema d’autore classico. Amelio invita il pubblico a confrontarsi con questioni etiche complesse, senza offrire risposte semplici o rassicuranti. Le interpretazioni intense di Borghi e Montesi, unite a una regia attenta e mai invasiva, rendono questa pellicola un’esperienza viscerale e intellettualmente stimolante, un’opera che si interroga sul significato del dovere, della pietà e, soprattutto, dell’umanità in tempi di disumanizzazione.

Sveva Di Palma

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Sveva Di Palma

Sveva. Un nome strano per una ragazza strana. 32 anni, ossessionata dalla scrittura, dal cibo e dal vino, credo fermamente che vincerò un Pulitzer. Scrivo troppo perché la scrittura mi salva dal mio eterno, improbabile sognare. È la cura. La mia, almeno.
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