I giovani non hanno voglia di (vivere per) lavorare
Le generazioni passate ci hanno insegnato che gli unici requisiti necessari per essere soddisfatti sul lavoro riguardano il successo, il prestigio sociale connesso ad una occupazione rispettabile – e alla possibilità di identificarsi con questa -, e soprattutto il guadagno economico.
Oggi però, il 34% dei lavoratori italiani tra i 25 e i 34 anni dichiara che preferirebbe “essere disoccupato piuttosto che infelice sul lavoro”. Che cosa è cambiato?
Quasi un anno fa diventava virale il video in lacrime della giovane americana Brielle Asero: lo sfogo colmo di sconforto e incredulità di una neolaureata al suo primo approccio al mondo del lavoro. Brielle lamentava di non avere più tempo per prendersi cura di sé, spazzato via da 8 ingombranti ore di lavoro che – messe insieme a quelle che impiegava per gli spostamenti – le garantivano giusto il tempo di mettersi a letto esausta ed impostare la sveglia per la mattina seguente.
Il video – per alcuni un po’ naive, ma senza dubbio autentico – era stato diffuso sulla piattaforma social TikTok con la speranza di ricevere conforto e comprensione da parte dei suoi coetanei, ma si è trasformato in un ritrovo per tutti quei lavoratori di vecchia data che non vedevano l’ora di dire la loro sulle nuove generazioni. Nella sezione commenti, dove si è consumata l’espressione del gap generazionale, i giovani venivano descritti come “pigri”, “scansafatiche” e “senza spirito di sacrificio”.
Potremmo dare la colpa all’architettura dei social, costruiti in modo da consentire a tutti di comunicare con tutti – e dunque a tutti di esprimere la propria opinione -, ma sappiamo bene che anche nei media mainstream come la stampa tradizionale, la narrazione delle nuove generazioni si alimenta degli stessi stereotipi. Il fatto quotidiano parla addirittura della nascita di una sorta di vero e proprio “genere letterario”, per riferirsi agli articoli giornalistici dedicati al filone dell’inflazionatissimo rimprovero: “i giovani non hanno voglia di lavorare”. Sono di fatto molteplici gli imprenditori e le aziende che negli anni si sono lamentati a mezzo stampa di cercare personale giovane, ma di non trovare giovani desiderosi di lavorare.
Nel frattempo, mentre i giornali parlano a gran voce della svogliatezza dei giovani italiani, questi ultimi ribattono silenziosamente, preferendo l’azione alle parole. Come? Licenziandosi dal proprio posto di lavoro, sulla scia della “Great Resignation”: un fenomeno oramai consolidato che consiste nel lasciare il proprio lavoro e che coinvolge sempre più persone in tutto il mondo. Può sembrare un paradosso, una risposta che conferma le accuse dei giornali, ma occorre precisarlo: tra le ragioni alla base delle “grandi dimissioni”, non aver voglia di lavorare non c’entra proprio nulla, anzi. L’obbiettivo è infatti quello di cercare un nuovo lavoro che abbia caratteristiche diverse da quello precedente.
“Più di un lavoratore italiano su due sta cercando un nuovo posto di lavoro o inizierà a farlo. (…) In particolare, sono i giovani della generazione Z a guidare questo cambiamento, poiché sempre più spesso preferiscono anteporre la propria felicità personale alla sfera lavorativa”
Randstad – agenzia per il lavoro
I giovani italiani hanno voglia di lavorare, ma le loro priorità, e così i criteri che li portano a scegliere un lavoro piuttosto che un altro (o a lasciare un lavoro per cercarne un altro), sono cambiati. Per valutare una posizione lavorativa, oggi i giovani italiani considerano innanzitutto come questa influirà sulla loro vita quotidiana, cioè se offre opportunità di equilibrio tra tempo di lavoro e tempo libero. Il 50% dei lavoratori italiani tra i 18 e i 25 anni sarebbe infatti disposto a lasciare il proprio lavoro se questo interferisse con il godimento della vita: lo rivela il Randstad Workmonitor. È chiaro dunque che la vita privata abbia un’importanza maggiore per le nuove generazioni, per questo cercano un ambiente di lavoro che lo rispetti: che consideri il tempo del riposo essenziale quanto quello della produttività, che abbia orari flessibili anziché totalizzanti. “Come farò a fare attività fisica?”, “Dove trovo il tempo per uscire con un ragazzo?”… Sono alcune delle parole che Brielle singhiozzava nel video sopra citato. Parole che non uscirebbero mai dalla bocca di nostro padre o di nostro nonno, cresciuti normalizzando l’idea di sacrificarsi per un lavoro che non lasci spazio a nient’altro. Un’idea, però, che le nuove generazioni non sono più disposte ad accettare.
Dire che i giovani si licenziano perché non vogliono lavorare è molto diverso dal dire che lo fanno per poter lavorare meglio, in un luogo che rispetti bisogni e benessere personale. Le parole plasmano la realtà: se l’universo giovanile continua ad essere narrato dai media con il filtro dei luoghi comuni, allora luoghi comuni nutriranno l’immaginario collettivo quando si parla di giovani (e del loro rapporto col lavoro). Nel tempo i luoghi comuni tramandati – e messi nero su bianco – sono stati tanti: falsifichiamone alcuni.
I giovani non hanno valori o ideali. Falso.
Tra le cause principali alla base delle “grandi dimissioni” vi è infatti proprio il mancato allineamento tra i valori personali e i valori dell’azienda. Ancora una volta, sono soprattutto le nuove generazioni ad essere meno propense a calpestare i propri valori per adattarsi all’ambiente di lavoro.
“I giovani in Italia sanno cosa desiderano dalla futura azienda per la quale lavoreranno: deve trattare bene i propri dipendenti, i clienti, i fornitori e il pianeta. Cercano ambienti di lavoro inclusivi e rispettosi della diversità”
https://www.randstad.it/blog-e-news/news-lavoro/giovani-e-lavoro/
Ciò non significa che nel valutare le offerte di lavoro si trascuri il guadagno economico. Anzi, il modo in cui i lavoratori vengono pagati – e non sfruttati – è un indicatore piuttosto rilevante dei valori di un’azienda. Forse però, le nuove generazioni non si lasciano offuscare la vista. Forse sono più attente ai retroscena, accettano meno compromessi. Una generazione più “schizzinosa”? Forse. Forse, però, anche con qualche scrupolo in più.
I giovani sono disinteressati. Falso.
Di fatto, una strategia che le aziende devono assolutamente adottare per evitare le dimissioni dei giovani dipendenti, è quella di farli sentire valorizzati. Le nuove generazioni non hanno più solo bisogno di trovare un’occupazione: vogliono un’occupazione che gli piaccia, che li entusiasmi. Trascinarsi a lavoro al mattino e svolgere con apatico distacco le proprie mansioni, fissando di continuo l’orologio, non gli basta più: vogliono sentirsi motivati, avere possibilità di carriera, e soprattutto svolgere attività con uno scopo condiviso e un senso facilmente identificabile.
“La tradizionale ricerca di lavoro è diventata una ricerca di significato”
https://www.randstad.it/blog-e-news/news-lavoro/giovani-e-lavoro/
Un significato che si ritrova anche nella formazione: per un’azienda, formare i propri dipendenti significa infatti trasmettere loro obiettivi, competenze, senso di appartenenza. Per questo motivo i giovani vogliono essere formati. Spesso però, vengono piuttosto lasciati a se stessi, nel disperato tentativo di afferrare da soli informazioni rilevanti per lo svolgimento delle loro mansioni. Una condizione di disorientamento – a cui la parola “gavetta” fa solo da prestanome – che risulta, per l’appunto, priva di senso.
Sul posto di lavoro, le nuove generazioni vorrebbero invece sentirsi parte necessaria di un tutto, di un processo creativo in cui il loro talento fosse riconosciuto e la loro opinione venisse presa sul serio.
I giovani non hanno voglia di lavorare. Falso. I giovani non hanno voglia di vivere per lavorare.
Sul loro inedito rapporto col mondo del lavoro si è scritto tanto, spesso usando delle generalizzazioni per facilitare le argomentazioni, ne abbiamo fatto uso anche qui. Ma è certo, i giovani non sono una categoria uniforme.
Alcuni forse badano unicamente al riscontro economico quando devono decidere se accettare o meno una proposta di lavoro, senza curarsi troppo di quali sono i valori alla base.
Ad altri basta semplicemente un lavoro che li renda indipendenti, anche se non incontra le loro passioni o non li entusiasma più di tanto. Magari non sono fatti per lo spirito di competizione, o semplicemente non si identificato con la propria occupazione, ritenendola poco importante nella definizione di sé.
È certo però, che sempre più giovani si rifiutano di vivere per lavorare: vogliono lavorare per vivere la vita. Una vita che preveda il lavoro, non che gli sia devota. Un lavoro che completi le giornate, non che le esaurisca.
“I giovani hanno ampiamente abbandonato lo slogan precedente, tipico dei boomer: si vive per lavorare. Vale l’opposto: si lavora per vivere, e possibilmente seguendo i propri valori, interessi e passioni”
https://www.randstad.it/blog-e-news/news-lavoro/giovani-e-lavoro/
Ad un orecchio di vecchia generazione queste idee potrebbero suonare assurde. Da sempre, del resto, le nuove idee sono ridicolizzate e sminuite prima di essere comprese. Ma lo scorrere del tempo non si può arrestare e, come da regola, l’innovazione segue sempre la tradizione: così, nello scetticismo collettivo, accade che le nuove idee si fanno strada silenziosamente nel tessuto sociale.
Il diritto alla disconnessione dal lavoro in Australia è legge e permette ai lavoratori di non essere costantemente reperibili al di fuori del normale orario di impiego. La settimana lavorativa corta di 4 giorni comincia ad essere sperimentata da diverse aziende, anche nel contesto italiano.
E poi? Quando queste idee atipiche saranno diventate tipiche, quali saranno le novità che i futuri giovani apporteranno al mondo del lavoro?
Simona Settembrini
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