Il palazzo delle lacrime di Şebnem İşigüzel – Il Telaio di Vuslat Emine
Nella collana “Mediterranea” della casa editrice “Crocetti”, con la magistrale traduzione di Nicola Verderame, viene pubblicato Gözyaşı Konağı (Il palazzo delle lacrime, 2023) della scrittrice turca Şebnem İşigüzel.
Un testo ambientato sulle scie della Turchia dell’Ottocento, che si immerge nella “fossa dei sogni” femminili.
Come sottolinea in un’intervista l’autrice, ha sempre raccontato le sue storie “attraverso le donne”, dona voce a queste donne che: “hanno un potere che si forma con l’oppressione proprio come i diamanti”.
Il testo di Şebnem possiede una vera e propria impronta femminista. Il palazzo delle lacrime, può essere considerato un vero e proprio cliché per i temi affrontanti, ma non è così, in base alla mia interpretazione. Dico temi, perché non assistiamo solo a un tema come quello dell’esclusione, del ripudio della donna a causa del suo misfatto: un figlio illegittimo, il figlio della colpa.
È presente una molteplicità di temi, e anche una forte presenza intertestuale, a partire dall’accenno di un nome particolare, Calipso.
La protagonista Vuslat Emine verrà spedita, in seguito alla rivelazione della gravidanza, sull’Isola per nascondersi, come manifesta il significato della ninfa Calipso, che “si innamora perdutamente di Ulisse, che era sbarcato sulla sua isola, e arriva a promettergli l’immortalità purché resti con lei” (78). L’Isola rappresenta una sorta d’oasi ma anche una prigione, allo stesso tempo: un luogo dove tutto è possibile.
Il testo si apre e si chiude con la presenza del fuoco e l’acqua, due elementi, che si intrecciano nel ruolo della donna.
La tela del racconto s’innesta nell’unica voce narrante, che è quella di Vuslat Emine, che usa come forma per narrare la sua storia, un diario.
Ci troviamo nella Primavera del 1876, una ragazzina di diciassette anni, “all’insaputa dei maschi di casa”, viene ripudiata dalla famiglia e spedita sull’isola di Büyükada, per celare quel “figlio della colpa”.
L’Isola doveva raffigurare per Vuslat Emine, in questo caso, la prigionia insieme alla serva circassa Bedriye Kalfa, va, invece, a rappresentare il luogo della rinascita e del suo “ricongiungimento” (come emerge dal significato del suo nome) con sé stessa e con la conoscenza di Mehmet.
I temi presenti sono molteplici e sono: l’oppressione maschile sulla donna, il destino che si va sempre a ripercuotere sul corpo femminile, a partire (anche) dal significato del nome, il rapporto tra madre e figlia e la violenza.
Questi temi qui esplicati si concentrano su più figure, figure narrate dalla protagonista, come la storia di sua madre o quella della serva Bedriye Kalfa. Quello che interessa e che emerge in questo testo di Şebnem İşigüzel, è la presenza di una donna forte, fragile quanto coraggiosa, che sfida attraverso la parola, la società, ricevendo in cambio: ingiurie e percorse.
“Mentre mamma mi spezzava l’orgoglio a forza di calci e Fatma mi picchiava facendomi male al cuore più che alla carne, era chiaro che ero caduta in disgrazia. Hicran aveva aperto le braccia e cercava di fermarle, ma invano […]” (28)
Considerata “la più bella” e “pericolosa” in famiglia, Vuslat, ha dentro di sé un fuoco selvaggio che non si placa neanche con le “pietre”, lanciate da parte delle donne (sue vicine), donne che vedono in lei la causa del “sogno infranto di tutte loro” della sua famiglia, portando in grembo “il figlio bastardo”. Una donna come lei viene considerata sovversiva, non solo perché ha in testa delle idee piuttosto progressiste, come possiamo leggere in questa domanda: “le ragazze possono diventare un pascià? (46). Una domanda lecita per lei ma pericolosa per gli altri, dato che le donne, devono essere solo delle sottomesse, racchiuse nella loro circoscrizione naturale che è moglie e madre.
Şebnem İşigüzel attraverso questo forte personaggio femminile, rovescia la situazione, immette in Vuslat una ribellione selvaggia, che viene fuori attraverso il corpo e la parola, occupa uno spazio, non si restringe, anzi, esplode con il corpo usandolo come una “torcia”.
Non è casuale che usi come forma di ribellione a quell’oppressione, a quella situazione che la mostra come una “svergognata” alla sua famiglia a causa della gravidanza, il fuoco, che è un elemento che veniva usato contro le streghe.
“Un po’ a causa dei tormenti che avevo causato loro, un po’ per la pressione ormai insostenibile che avevo addosso, una notte avevo deciso di darmi fuoco come una torcia. Se mi fossi ridotta in cenere, tutto sarebbe finito. Avevo dei capelli lunghissimi” (16)
Tutto il romanzo ha il sentore della morte che sta per arrivare, s’intuisce nella presenza del simbolo del fuoco e dell’acqua, rappresentato dal mare. Inoltre, è onnipresente il tema filiale, il rapporto tra madre e figlia, un rapporto che s’alterna in rimproveri e allegrie, che si vede interrotto nel momento in cui Vuslat Emine, fa emergere la sua condizione di donna svergognata. La madre di Vuslat è una donna infelice, a cui cerca di compensare con la presenza degli oggetti, e sfidando se stessa cercando di vivere e di essere un Alafranga (vocabolo che designa lo stile europeo, 283), e per questo, il suo essere madre esplode in tutta la rabbia, arrivando anche a “confezionare” un veleno “in uno sciroppo delle rose”, nei confronti della figlia, non voleva che il suo destino fosse come il suo. “Nostra madre è un fiore strappato dallo stello. Per questo non vuole che strappiamo i fiori da dove si trovano”.
Vuslat Emine s’immerge nella fossa, dal momento in cui viene ingravidata da suo cognato, il pascià che avrebbe dovuto sposare sua sorella. Per un errore tutta la sua esistenza viene racchiusa in una “torre”, come le principesse, e come quest’ultime aspettano solo di essere salvate da un principe, magari, come Mehmet. Ma la scrittrice non permette che a salvarla sia un uomo, permette che sia lei stessa a salvarsi. Farà la conoscenza dell’amore in Mehmet, il “traditore della patria”, il “bandito”, che vive sull’Isola, in lui vede una possibilità per salvarsi, ma allo stesso tempo inizia a comprendere il vero sentimento e il proprio corpo. Come in una sorta alla “mille e una notte” Vuslat attraverso il racconto, narrando della sua famiglia, di Bedriye Kalfa e di sé al suo innamorato Mehmet, è come se ritardasse l’arrivo della morte.
Emilia Pietropaolo
Leggi anche: Guadalupe Nettel Hija Unica: l’urlo della speranza