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L’ultima corsa di Rebecca Cheptegei: l’atleta olimpica ugandese bruciata viva

C’è un silenzio che pesa, come una ferita non rimarginata. Lo stesso silenzio che avvolgeva i corridoi della Moi Teaching and Referral Hospital di Eldoret, dove la giovane atleta ugandese Rebecca Cheptegei ha esalato il suo ultimo respiro.

Aveva solo 33 anni. Sul mondo contemporaneo pesa come un macigno l’ennesimo femminicidio.

Una vita piena di corse, quella di Rebecca, di traguardi raggiunti, di sogni coltivati con fatica, una gara interrotta brutalmente da un gesto di violenza che non lascia spazio a spiegazioni razionali.

Parlare di violenza sulle donne, di lotta di genere, di sicurezza e protezione, risulta sempre più difficile, rischioso, potenzialmente banale e qualunquista. Ma il rischio è un buco nero da saltare, oltrepassare, una sfida da affrontare per superare ogni generalizzazione, quel passo essenziale per muoversi, spostarsi da dove si è e avanzare, procedere. Parlare di Rebecca Cheptgei è parlare di un’altra donna uccisa, sì, ma è come parlare di ogni donna uccisa. La voce dell’atleta si unisce a quella delle altre, sorelle, in un coro mortifero che bussa alla porta della nostra società.

Rebecca, un nome che nei cuori degli appassionati di atletica mondiale riecheggerà per sempre, si era qualificata per la maratona olimpica di Parigi, un risultato che l’aveva consacrata tra i migliori talenti del suo Paese. Ma la giovane, invece di rievocare nei tifosi i ricordi delle sue vittorie, delle sue falcate leggere e decise, li costringe ora a parlare di morte, una morte che ci colpisce tutti, come uno schiaffo improvviso.

Era domenica pomeriggio quando l’uomo con cui aveva una relazione, Dickson Ndiema, si è introdotto nella sua casa in Kenya, portando con sé una tanica di benzina. Un gesto terribile, premeditato, che ha visto Rebecca avvolta dalle fiamme e ridotta in fin di vita. I suoi organi non hanno retto l’orrore: l’80% del suo corpo era ustionato, i polmoni compromessi dalle inalazioni. Le speranze che le sue gambe potessero ancora danzare lungo le strade delle maratone internazionali si sono infrante contro la brutalità di un attacco feroce. Le speranze che potesse continuare a correre, a vivere la sua passione, sono state spente in un attimo. Dopo un ricovero in ospedale durato pochi giorni, il cuore potente e allenato della Cheptgei si è spento per sempre.

Rebecca non è solo l’ennesima vittima di una violenza che si ripete troppo spesso, non è solo un altro nome in una lunga lista di donne uccise. È il simbolo di una violenza sistemica, che colpisce il femminile ovunque. In Kenya, tra il 2016 e il 2023, almeno 500 donne sono state uccise. E il numero continua a salire. Un massacro che cerca la sua voce disperata, il giusto mezzo per farsi sentire, vedere, comprendere.

Il padre di Rebecca, Joseph, aveva già denunciato alle autorità le minacce di Dickson, ma, come spesso accade, le sue parole sono rimaste inascoltate. Il timore è che tragedie come questa diventino sempre più frequenti, una drammatica normalità. Rebecca Cheptegei, che con il suo sorriso illuminava le piste, che correva come se sfidasse il vento, lascia un’eredità che non possiamo ignorare. La sua morte è un grido che invoca giustizia, non solo per lei, ma per tutte le donne che vivono nella paura. Durante la sua carriera, l’atleta ha stabilito il record ugandese di maratona con un tempo di 2 ore, 22 minuti e 47 secondi. Un risultato straordinario, frutto di anni di sacrifici. Sono stati decenni di sforzi, allenamenti massacranti e bellissimi, ogni giorno, tutti i giorni. Il sintomo di carattere tenace, da lottatrice, indefesso, che ti porta sul tetto del mondo per un attimo. Eppure, nonostante la sua forza, la maratoneta non è riuscita a sfuggire a un destino crudele che non avrebbe mai dovuto toccarla. Perché farsi uccidere da chi si ama è il dolore, il tradimento, massimo.

Oggi, mentre la comunità sportiva internazionale, inclusa la World Athletics, piange la sua perdita, ci chiediamo: cosa si può fare per proteggere, migliorare, rispettare le donne? Cosa possiamo fare noi, come società, per evitare che un’altra campionessa, sorella, amica, madre sia cancellata da un atto di violenza? Le parole di Sebastian Coe, presidente della World Athletics, risuonano forti:

La nostra comunità ha perso un’atleta straordinaria in circostanze inimmaginabili. Non possiamo permettere che accada di nuovo”.

Rebecca lascia due figli, una famiglia devastata dal dolore, e una comunità di atleti che la ricorderà non solo per i suoi successi, ma per il coraggio di aver vissuto e lottato. Ma ora, più di tutto, Rebecca rappresenta una domanda che non può essere ignorata. In un mondo che fatica ancora a difendere le sue donne, la memoria di Rebecca Cheptegei continuerà a correre, a infrangere il silenzio, a sfidare l’indifferenza.

Sveva Di Palma

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Sveva Di Palma

Sveva. Un nome strano per una ragazza strana. 32 anni, ossessionata dalla scrittura, dal cibo e dal vino, credo fermamente che vincerò un Pulitzer. Scrivo troppo perché la scrittura mi salva dal mio eterno, improbabile sognare. È la cura. La mia, almeno.
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