Medusa non è un mostro, ma una sopravvissuta
Dietro ogni tatuaggio si cela un significato più profondo e nascosto: quello della gorgone Medusa è una denuncia contro le violenze sessuali subite.
Il suo mito è stato quindi riletto e riconsiderato grazie alla sensibilizzazione social nei confronti degli abusi sessuali.
Mi è sempre stato caro il mito di Medusa ma, solo crescendo, ne ho compreso il doloroso significato. Tutti la conosciamo come una terrificante gorgone, una figura mitologica anguicrinita (ossia con serpenti al posto dei capelli) che pietrifica le sue vittime solo con lo sguardo, ma ha una storia dimenticata.
Con gli anni, posso dire che di aver imparato quanto i miti ci spieghino il mondo e la storia, ma anche il patriarcato. Mi sento di riassumere la storia di Medusa con poche parole: la vittima di stupro viene trasformata da una donna in un mostro e viene uccisa da un uomo.
La vicenda, brevemente, è la seguente. Prima di diventare un mostro, Medusa era una donna bellissima e una sacerdotessa della dea Atena, che venne violentata brutalmente dal dio dei mari, Poseidone, proprio nel tempio di Atena. La dea, furiosa della profanazione del suo luogo sacro ma incapace di punire un dio, sfogò la sua rabbia su Medusa e la trasformò nel mostro che iconograficamente tutti conosciamo.
Siamo di fronte alla più antica forma di colpevolizzazione della vittima, o victim-blaming. Nel mito di Medusa, infatti, la grande assente è la solidarietà femminile: come Poseidone che la stuprò e Perseo che la uccise, colpevole è anche Atena che se la prese ingiustamente con lei.
La sua è una storia di riscatto, dato che dalla sua morte e dal suo sangue si genera la vita: nasce Pegaso, il cavallo alato che diventerà proprietà di un altro uomo, Zeus. Medusa muore generando: tanta vita le è stata tolta quanta ne ha donata.
Oggi mi sento di dire che Medusa rappresenta ancora una grande pagina di attualità, e mi torna in mente ogni volta che sento l’ennesimo caso di stupro, di violenza di genere o di femminicidio. Tutti quei casi in cui gli uomini esercitano potere e controllo sulle donne.
Donne forti che, quotidianamente, finiscono per incarnare il mito di Medusa, una donna bellissima e desiderata che rifiuta il suo stalker, il dio dei mari Poseidone. Ma l’uomo non si arrende: la stupra, consumando la sua rabbia per vendicarsi del rifiuto. E, dopo averla punita rendendola un mostro, la dea Atena aiuterà Perseo, un altro uomo, ad ucciderla.
Niente è cambiato da allora, ed ecco che l’efferatezza dello stupro e dell’omicidio inscenato nella mitologia greca tornano attuali nelle pagine di cronaca nera. Medusa, donna, gorgone, violentata e uccisa per mano degli uomini, ma con la vittimizzazione da parte della donna. Medusa è una donna come tante, vittima due volte.
Tatuarsi Medusa e mostrare con orgoglio quel tatuaggio, quindi, significa tatuarsi la sopravvivenza allo stupro, agli abusi e alla violenza sessuale. È la rappresentazione visiva della capacità di ricominciare a vivere: un inno alla forza, alla resilienza e alla capacità di sopravvivere nonostante il dolore.
È anche un simbolo di protezione perché, con il suo sguardo pietrificante, Medusa è riuscita a sopravvivere e ad auto-proteggersi – finché non è arrivato Perseo.
Tatuarsi Medusa è dunque l’emblema della lotta allo stigma, alla vergogna, al senso di colpa e all’autocolpevolizzazione comunemente sperimentata da chi ha subìto violenza sessuale.
Un codice muto e segreto, un codice visivo per sapere che dinnanzi a noi c’è una sopravvissuta.
Medusa fu donna, Medusa fu stuprata, Medusa fu uccisa.
Mi chiedo, quanti Poseidone dobbiamo ancora stanare? Quanti Perseo dobbiamo ancora incarcerare? Quante Medusa dobbiamo ancora uccidere?
Elisabetta Carbone
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