Che incubo il lavoro dei sogni
I social network parlano di lavoro, del mito della ricchezza, della hustle culture e del quiet quitting.
Ma il lavoro dei sogni è un’invenzione.
«Che cosa vuoi fare da grande?» è una domanda che iniziano a farci alle scuole medie, quando dobbiamo scegliere la scuola superiore, scelta che verosimilmente segnerà i futuri 50 anni di carriera escludendo altre centinaia se non migliaia di opportunità. Insomma, già a 13-14 anni ci viene chiesto di scegliere del nostro futuro, quando in realtà siamo poco più che bambini e non sappiamo ancora un cazzo.
Di recente ho visto una vignetta su Instagram che riporta un botta e risposta del tipo:
– «Qual è il lavoro dei tuoi sogni?»
– «Nei miei sogni non lavoro»
Niente di più vero.
Credo, da quando ho coscienza di me, di aver voluto fare almeno una cinquantina di professioni diverse, come tutti: l’archeologa, la gelataia, la veterinaria, la musicista, la professoressa e un’infinità di job title che non mi ricordo più. Finché, molto più tardi, ho trovato la mia strada, per prove ed errori.
Trovata la mia strada, mi sono scontrata con la realtà. Mi sono resa conto che comunque si lavora sempre in aziende, generalmente verticistiche, ed ecco l’epifania: il lavoro non è mai quello dei sogni, e in aggiunta vengono richiesti dei livelli di perfezionismo, competitività e produttività tali da trasformare il lavoro in un vero e proprio incubo. Fino alla pensione.
Il lavoro dei sogni è, a conti fatti, una truffa per tutti. Possiamo amare il nostro lavoro, può piacerci quello che facciamo, possiamo essere felici delle nostre mansioni e del modo in cui le svolgiamo, ma a conti fatti è il mondo del lavoro che trasforma il sogno in un incubo. Perché il mondo del lavoro fa schifo.
Online esistono migliaia di video che incitano alla hustle culture, tutte quelle credenze condivise che ci fanno credere che è necessario lavorare sempre più duramente per raggiungere la perfezione. Ma la perfezione non esiste e, se cercata con maniacale devozione, porta solo all’esaurimento. Siamo spinti ad alzare sempre più l’asticella, a credere in standard migliori a cui elevarci, a guardare con invidia il vicino di scrivania che sembra sempre più produttivo di noi. Ma il traguardo non lo raggiungiamo mai perché, semplicemente, la perfezione non esiste.
Il lavoro e il perfezionismo sul luogo di lavoro non definiscono il nostro valore personale. Essere impegnati, avere sempre da fare, vivere in un loop di lavoro infinito crea solo senso di colpa quando abbiamo il bisogno psicofisico di fare una pausa. Ed ecco che spunta anche la career anxiety, l’ansia da carriera. Così ci sentiamo costretti a rispondere alle e-mail dopo l’orario di lavoro, in ferie o nel weekend, a creare inutili competizioni con i colleghi, oppure a rinunciare a prendere ferie, permessi o malattia anche quando sono necessari.
Ma l’aspirazione verso un posto di lavoro migliore e l’ambizione verso una RAL più alta restano. E questo genera ulteriore ansia.
Il lavoro dei sogni non esiste e forse il mondo del lavoro oggi fa schifo perché non prende in considerazione due fattori psicologici importanti per vivere bene: il tempo e le emozioni. L’ansia, il timore di rimanere indietro, di essere rifiutati, la promozione che non arriva, i luoghi di lavoro obsoleti, gli spostamenti per recarsi al lavoro, la gerarchia sociale verticistica – sono tutti i fattori che generano malessere, depressione, ansia ma anche più semplicemente noia. Uffici angusti, scrivanie millenarie, pareti spoglie, openspace rumorosi, riunioni infinite a orari improponibili, capi che urlano e traffico per tornare a casa…
Però mi sorge un atroce sospetto: e se, nonostante tutto, fossimo comunque dei privilegiati rispetto ai nostri antenati? È forse più dignitoso vivere da precari e sottopagati rispetto al lavoro in fabbrica sotto i bombardamenti?
Vana consolazione. Ma quando guariamo ai lavori e ai lavoratori del passato ci vengono in mente solo immagini stereotipate di servi della gleba, operai tessili e gilde di artigiani (immagini ereditate dall’Illuminismo) in cui tutti stavano malissimo e si moriva per una banale febbre, per la dissenteria, per i banditi o per le guerre.
Certo, i lavori del passato, il lavoro nei campi o quello in miniera sono più duri di una giornata in ufficio. Ma oggi si sommano le pressioni sociali e culturali a cui tutti siamo sottoposti. Lavorare in un campo distrugge il fisico, e siamo tutti d’accordo, ma siamo altrettanto sicuri che è più duro di un turno in un magazzino Amazon, di lavorare in un centro commerciale, di un turno di notte in fabbrica o di un maledetto ufficio popolato da persone che detestiamo e che siamo costrette a sopportare?
Il lavoro, per alcuni, è diventato un problema psicologico, sociale, culturale ed economico, problema che trae nutrimento dalla noia vissuta e subita da chi vive con irrequietezza la fine del turno.
Ogni tanto qualche imprenditore ingenuotto pensa di risollevare il morale dei dipendenti con un nuovo arredamento, una piantina alla reception o l’adozione del formato openspace – tutte sono soluzioni disperate, cerotti con cui prova a riparare colossali ferite vecchie di decenni.
Per tutte queste ragioni, l’ufficio e il mondo del lavoro sono la piastra di Petri per osservare emozioni come la noia e i suoi principali satelliti: frustrazione, ansia, tristezza e depressione.
Elisabetta Carbone
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