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Monsters: la storia di Lyle e Erik Menendez – la verità dietro la controversa serie true crime Netflix

La nuova serie Monsters: The Lyle and Erik Menendez Story, uscita di recente su Netflix, ha riportato alla ribalta uno dei casi criminali più controversi della storia americana.

Trasposta e adattata per lo schermo dal prolifico Ryan Murphy, già noto per aver esplorato le zone d’ombra dell’animo umano in serie come American Horror Story e Dahmer, questa stagione si concentra sui fratelli Menendez, condannati nel 1996 per l’omicidio dei genitori, José e Kitty Menendez.

La domanda, il dilemma, presentato dalla serie è: mostri si diventa o si nasce?

Ma la serie, che ha subito raggiunto i vertici delle classifiche di streaming, è molto più che una semplice ricostruzione dei fatti: si addentra nelle dinamiche di abuso e traumi, tentando di sviscerare le verità sepolte dietro questo brutale doppio omicidio. Tuttavia, le reazioni al prodotto televisivo sono state tanto divisive quanto la storia che racconta, spaccando critica e pubblico.

Gli interpreti principali sono Nicholas Chavez e Cooper Koch, che vestono i panni dei due fratelli, mentre José e Kitty Menendez sono interpretati rispettivamente dal premio Oscar Javier Bardem e da Chloë Sevigny. Le interpretazioni sono state uno dei punti di forza della serie, con una ricchezza interpretativa e un profondo ritratto delle anime tormentate dei personaggi. Ma il ritmo narrativo ha lasciato alcuni critici a bocca asciutta,  privandoli della complessità e del realismo che un true crime così scioccante dovrebbe portare sullo schermo. Alcuni, come Ed Power del Telegraph, hanno accusato la serie di essere un mero “fodder” per il pubblico affamato di storie scioccanti, senza rispetto per la sensibilità dei temi trattati. Aramide Tinubu di Variety ha parlato di una narrazione confusa e a tratti sensazionalistica, sottolineando come il peso drammatico della vicenda venga a volte sacrificato per la spettacolarità del racconto. D’altro canto, nessuno ha messo in discussione la qualità delle interpretazioni, specialmente quella di Bardem, che dona a José Menendez una complessità non banale. Ma Monsters va oltre la semplice spettacolarizzazione del dolore, è una provocazione, un pungolo che riporta all’attenzione la storia vera – altrettanto spettacolarizzata all’epoca dei fatti di cronaca narrati – dei fratelli Menendez.

La storia dei Menendez è tristemente famosa. Nel 1989, i due fratelli, all’epoca appena ventenni, furono accusati dell’omicidio a sangue freddo dei genitori nella loro lussuosa residenza di Beverly Hills. L’accusa sosteneva che il movente fosse il desiderio di ereditare la cospicua fortuna di famiglia, supportata dalle spese folli effettuate dai ragazzi subito dopo i delitti. La difesa, tuttavia, portò alla luce una narrazione completamente diversa: Lyle ed Erik avrebbero agito per autodifesa, dopo anni di abusi fisici, psicologici e sessuali subiti dal padre. José, cubano di nascita e imprenditore di grande successo, era un uomo notoriamente conosciuto per la sua aggressività, il suo carisma e la perenne aria di superiorità. Duro e ambizioso, ha cresciuto i figli in una ambiente quasi militare, in cui esisteva solo la voglia di arrivare, la perfezione e il raggiungimento di obiettivi irrealistici per due adolescenti.

Lyle e Erik, scansafatiche e privilegiati, ne hanno avuto abbastanza del dispotismo paterno e della passività materna, decidendo così di prendere in mano le loro vite? Il loro gesto, orribile e estremo, è dovuto a una voglia di riscatto, di liberazione, o a qualcosa si più oscuro, malato? La questione ha spaccato l’opinione pubblica, alimentando un dibattito sulla verità dietro ai crimini e sulla credibilità delle accuse di abuso all’interno di una famiglia apparentemente perfetta.

I due fratelli, a cavallo tra la fine degli anni ’80 e l’inizio dei ’90, sono diventati star, veri divi, in quello che viene definito il caso che ha portato il true crime nel mondo dell’intrattenimento. Trent’anni dopo, la storia è tutt’altro che chiusa: nonostante i fratelli siano in carcere da diversi decenni, nuove informazioni e dichiarazioni hanno lasciato aperto uno spiraglio, la speranza di rivedere il caso alla luce delle trasformazioni socioculturali che hanno plasmato il mondo moderno.

Gli avvocati dei Menendez, infatti, stanno tentando di riaprire il caso, basandosi su nuove testimonianze e prove emerse di recente. Uno sviluppo cruciale è l’accusa mossa da Roy Rosselló, ex membro del famoso gruppo musicale Menudo (curato dallo stesso José), che ha dichiarato di essere stato anch’egli abusato sessualmente da José Menendez negli anni ’80, quando era solo un adolescente. Queste accuse sono state presentate come parte di un nuovo ricorso legale, insieme a una lettera scritta da Erik Menendez a suo cugino mesi prima degli omicidi, in cui descriveva gli abusi subiti dal padre. La difesa sostiene che queste nuove prove dimostrano come le accuse di abuso da parte dei fratelli non fossero invenzioni per giustificare il crimine, ma parte di un quadro molto più complesso.

Nonostante queste nuove rivelazioni, gli esperti legali non sono ottimisti. Molti ritengono che le nuove testimonianze, sebbene tragiche, non siano sufficienti per ribaltare una condanna che ormai ha più di trent’anni. Il caso ha già subito numerosi processi e revisioni, e l’impianto probatorio che portò alla condanna dei fratelli rimane solido. Tuttavia, i difensori dei Menendez, tra cui l’avvocato Mark Geragos, sperano che le nuove prove e il cambiamento nella sensibilità sociale rispetto agli abusi sessuali possano far cambiare idea ai giudici. L’obiettivo sarebbe almeno una revisione delle sentenze o una riduzione delle pene, attualmente fissate all’ergastolo senza possibilità di libertà condizionale.

In parallelo al dibattito legale, la serie Netflix non si limita a una ricostruzione cronologica degli eventi, ma esplora le dinamiche familiari in maniera quasi claustrofobica, tentando di mettere in luce il profondo senso di terrore e impotenza che i fratelli avrebbero provato. Murphy ha dichiarato di aver voluto mostrare non solo il punto di vista dei ragazzi, ma anche quello dei genitori, creando un racconto in cui nessuno è del tutto vittima o carnefice. Tuttavia, questa scelta di rappresentare la storia da più prospettive ha sollevato critiche, con alcuni spettatori e critici che accusano la serie di non schierarsi in maniera chiara contro l’abuso, rendendo la visione dei fatti ambigua.

Le opinioni della critica e del pubblico continuano a dividersi. Se da una parte ci sono coloro che apprezzano la serie per la sua capacità di mantenere viva l’attenzione su un caso delicato e complesso, dall’altra c’è una larga fetta di spettatori  che critica aspramente la spettacolarizzazione di una tragedia familiare, alimentando il voyeurismo morboso senza aggiungere nuovi spunti di riflessione. Alla luce delle accuse mosse dalla famiglia Menendez – lo stesso Erik, oltraggiato dalla rappresentazione del fratello Lyle offerta dalla serie –  lo show si inserisce in quel filone di prodotti televisivi che sembrano voler intrattenere più che informare, ponendo così una domanda scomoda su cosa significhi oggi trattare storie vere nel contesto di una narrazione di massa.

Monsters: The Lyle and Erik Menendez Story non è solo un dramma criminale, ma un riflesso del modo in cui il trauma e la violenza vengono digeriti dal pubblico contemporaneo. Nonostante le controversie, il prodotto firmato Ryan Murphy continua ad affascinare, lasciando aperto il dibattito non solo sulla colpevolezza dei fratelli Menendez, ma anche su come la verità, in questi casi, possa essere soggetta a reinterpretazioni infinite. E mentre i tribunali decideranno se ci saranno ulteriori sviluppi legali, una cosa è certa: la vicenda dei Menendez rimarrà a lungo scolpita nella memoria collettiva, oscillando tra il mito del true crime e la tragedia generazionale di una povera, ma ricchissima, famiglia.

Sveva Di Palma

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Sveva Di Palma

Sveva. Un nome strano per una ragazza strana. 32 anni, ossessionata dalla scrittura, dal cibo e dal vino, credo fermamente che vincerò un Pulitzer. Scrivo troppo perché la scrittura mi salva dal mio eterno, improbabile sognare. È la cura. La mia, almeno.
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