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Abituate alla molestia

Il ragazzo che era seduto davanti a me era appena sceso, due fermate prima della mia. Ormai mancava poco.

Mi aveva parlato della sua fidanzata, che fa la pendolare e lavora in una città che non le piace.

E mi aveva augurato buon viaggio, sperando che ci volesse davvero solo mezz’ora. Avevamo già 120 minuti di ritardo. Era stata una giornata lunga, come quella di molti altri. Ma lunga. Sveglia alle 6, in treno già alle 7:35, per arrivare verso le 9 e poter cominciare a fare tutto il resto. Poi cambi di programma, un appuntamento aggiunto all’ultimo, un altro treno e un ulteriore ritardo. Alla fine, avevo deciso di prendere quello delle 20:32, un po’ per il costo, un po’ perché speravo che il ritardo accumulato per quell’ora sarebbe stato smaltito. Avevo sbagliato i calcoli.

Ci siamo salutati con un in bocca al lupo. Lui si era licenziato quella mattina. Stava tornando a casa con una valigia enorme e oltre nove ore di viaggio sulle spalle. Non ci ho fatto neanche caso al fatto che, scendendo, mi avrebbe lasciato sola nel vagone. Ero rimasta lì, alle 23 passate, attaccata al finestrino, cercando di rimanere sveglia.

L’ho notato: ho visto che camminava nel corridoio, mi guardava, poi andava avanti. Tornava indietro, si sedeva davanti a me, nel posto a quattro in cui ero io, ma dal lato del corridoio. Non mi piaceva che si fosse seduto così vicino a me eppure, istintivamente, credo di aver fatto una smorfia che poteva sembrare un sorriso. Nel frattempo, mi ero fatta ancora più vicina al finestrino. “Spero di arrivare presto” pensavo, continuando a scrollare Instagram dal cellulare. Mi fissava, ma io non volevo alzare lo sguardo. “Spero di arrivare presto”. Lo ripetevo nella mente, pensando che, se mi avesse toccato o detto qualcosa, sarei andata via. Anche se con le gambe mi bloccava l’uscita.

Poi, il controllore ci ha guardato, è andato avanti e tornato indietro anche lui. Ha controllato il mio biglietto: “Se vuole spostarsi, di là c’è l’aria condizionata”. Non ho capito subito. “Devo cambiare posto?” ho chiesto. “Se vuole”. “Sì, grazie. Meglio di là”. Ho staccato il caricatore e ho preso la borsa. Quando mi sono alzata, ho visto che nel vagone non c’era più nessuno, oltre me. E quell’uomo che era salito una fermata prima, senza biglietto, per scendere alla fermata dopo, chissà a quale scopo.

Ho percorso l’intero vagone, salito alcuni gradini e mi sono seduta vicino a due signori: uno di loro parlava da solo, l’altra mi ha sorriso, forse involontariamente anche lei. “Va bene qui” mi diceva il controllore poco dopo, “Scusa se mi sono permesso”. L’ho ringraziato. “La prossima volta, però, alzatevi e spostatevi già voi. Perché magari può capitare che noi non ce ne accorgiamo”. Ho annuito, l’ho ringraziato di nuovo. Solo allora ho realizzato che il vagone era vuoto, che ero sola su un treno, che era quasi mezzanotte e un uomo mi aveva guardato, era passato avanti e poi si era seduto proprio davanti a me. Fuori era buio, io tremavo. Ho scritto alle mie amiche. “Meno male!”, “La prossima volta chiama”, “Telefona quando arrivi”, “Non disturbi, chiama sempre”. Avrei dovuto chiamare, è vero, per proteggermi. Ma non mi ero accorta di niente. Guardavo fuori.

“La prossima volta spostatevi già voi” mi risuonava nelle orecchie. Voi donne, voi ragazze che viaggiate da sole, di notte e non vi accorgete che non c’è più nessuno intorno a cui chiedere aiuto. Voi, che pensate di prendere sempre le corrette precauzioni: lo spray al peperoncino, le chiavi strette in mano, il cellulare attaccato all’orecchio. Voi, che vi coprite con una giacca larga e non indossate niente di attillato, perché si viaggia più comodi, e poi, uno sguardo indiscreto è meglio evitarlo. Voi, che camminate svelte di giorno e di sera, che cambiate marciapiede, che non rispondete ai commenti, che fate finta di non sentirli, che abbassate lo sguardo. Voi, che quando tornate a casa tutte intere, non è perché siete state più scrupolose, attente o diligenti delle altre, ma solo più fortunate. Voi, di cui faccio parte anche io.

Io, che devo ringraziare un uomo per avermi salvato da un altro uomo, perché non ci avevo fatto caso, perché ero stanca, perché avevo abbassato la guardia, perché pensavo di essere al sicuro. Io, che al sicuro non sono mai, abituata a sorridere senza intenzione, a non guardare, a stringermi nelle spalle e avvicinarmi alla parete. Io, che sono voi, e quella notte sono tornata a casa intera, tremando, perché ho avuto fortuna.

Stefania Malerba

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Photo credits Alessandro Luparello

Stefania Malerba

Sono Stefania e ho poche altre certezze. Mi piace l’aria che si respira al mare, il vento sulla faccia, perdermi in strade conosciute e cambiare spesso idea. Nel tempo libero imbratto fogli di carta, con parole e macchie variopinte, e guardo molto il cielo.
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