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Inquietudine, genio e tormento; l’ardua parabola umana di Torquato Tasso

L’animo umano, si sa, è un intricato labirinto di passioni, dove il genio e la follia spesso si stringono la mano, come due amanti destinati a perdersi l’uno nell’altro.

Torquato Tasso, poeta immortale, visse sempre all’insegna di questa tensione fatale, eternamente sospeso tra il lume della gloria letteraria e le ombre più cupe del suo tormento interiore.

Nato sotto una stella promettente e destinato ad una gloria senza pari, la sua mente fu gabbia e paradiso, in grado di dar vita ad uno dei maggiori capolavori letterari della storia dell’umanità, ma capace anche di distruggere completamente il suo spirito. Ecco l’inquieto viaggio di un’anima troppo vasta per essere contenuta dal mondo, ecco la storia di Torquato Tasso.

Nell’ombra di una cella umida e angusta, il vecchio Torquato siede con lo sguardo perso tra le pagine di un vecchio manoscritto. Le sue dita sfiorano la carta ingiallita e spiegazzata, come se in quei versi egli potesse trovare la tanto agognata serenità, oppure un perdono che, seppur eternamente invocato, continua a farsi attendere. Rinchiuso a Sant’Anna, l’ospedale dei folli, trascorre le sue giornate a pensare a come sarebbe andata se le cose fossero state diverse, se lui fosse stato diverso. Fuori, il mondo lo acclama a sua insaputa. Dentro, la sua anima continua a pagare il prezzo del suo ignominioso tormento.

Ogni notte, però, un folletto bussa alle sbarre della sua cella; lo perseguita e lo schernisce, «ecco il grande Torquato Tasso!» gli dice. Ma se la follia non gli era mai appartenuta, certamente gli si sarebbe presentata a furia di restare solo e, per questo, proprio per quella fastidiosissima creaturina, inizia il suo racconto. E come scintilla nel buio brilla e poi divampa, la mente lo porta alla sua Sorrento, mentre il fruscio del mare e il fresco profumo dei limoni maturi, puri ricordi di gioventù, gli suggeriscono l’idea che non si tratti dell’ennesima stramba fantasticheria. Il suo destino, fin dalla culla, è segnato: diverrà poeta come suo padre Bernardo. E infatti, quasi volendo dare ragione al destino, Torquato, appena ragazzo, dimostra subito una sensibilità fuori dal comune: in paese si dice addirittura che, mentre gli altri ragazzini corrono per le vie acciottolate giocando tra le barche dei pescatori, il figlio dei Tasso se ne stia tutto solo su uno scoglio, ritto e altero, mentre fissa l’orizzonte con occhi grandi e pensosi. Si dice che si perda tra le sue fantasie: mondi lontani, cavalieri valorosi e innocenti damigelle, quasi come se fossero amici di una vita, gli tengono compagnia con le loro storie, mentre la monotona vita cittadina gli scorre tutt’attorno.

Torquato non può sapere che presto tutto questo gli sarà strappato; a causa di alcune faide politiche che coinvolgono la sua famiglia, infatti, egli è costretto ad abbandonare la sua casa, consapevole che sarebbero state quelle sponde, quegli scogli e quei limoni a non abbandonarlo mai. Sballottato dall’oceano della vita, segue il padre a Roma, poi a Venezia e, infine, giunge a Padova, dove completa la sua formazione e pubblica la sua opera prima, il Rinaldo. Come dimenticare l’entusiasmo di quel giorno? Destino e vita, finalmente, si incontravano, mentre i sogni del giovane poeta, mai stati così vividi e nitidi, affollavano numerosi la sua mente. «Scriverò il più grande poema eroico che l’umanità abbia mai letto!», probabilmente pensò, come se il mondo fosse ormai suo, come se potesse raggiungere qualsiasi cosa avesse voluto.

Ebbe da dire persino: «Nessuno merita il nome di Creatore, tranne Dio e il poeta». Eppure oggi, in quella cella buia e dimenticata, tutto sembra fuorché un Dio e, anzi, lotta ogni giorno per restare almeno sé stesso. Gli basta il ricordo della splendente Ferrara per non smarrirsi, quando, accolto dal Duca, poté dedicarsi alla grande opera della sua vita, Gottifredo la chiamava. Ed ecco, tutto ad un tratto, un affaccendato poeta: chino su uno scrittoio e al lume di una fioca candela, crede di comporre, verso dopo verso, la sua immortalità. Illuso, sognatore, o forse semplicemente giovane, confida alla sua penna intimi segreti, mentre le lunghe ombre sulle mura, come in una danza, sgomitano per riuscire a carpirli. «o Musa, la tua opera sarà poema tra i poemi e risplenderà nei secoli. Sarà come conviene ai tempi nostri e gli uomini, vedrai, non potranno non rendersene conto». È qui che la luce si spegne, perché, segregati ed esiliati, i poeti troveranno sempre il modo di scappare, di volare alto con la mente e di perdersi tra le stelle. Ma dalle catene che sarebbero presto arrivate, peggiori persino di quelle di Sant’Anna, nulla avrebbe potuto salvare il povero Torquato. Ormai, si sa, non esiste forza più grande nel suo cuore; niente può ostacolare l’ossessivo desiderio di perfezione che, come un impeto distruttivo, gli offusca la ragione, mentre lo sospinge alla volta di Roma. Chiaro il suo obbiettivo: i colti e i letterati della Città eterna ameranno il Gottifredo. Ancora una volta, Torquato è ignaro di ciò che lo attende. «Ah, se solo potessi parlare a quel povero ingenuo…», borbotta il prigioniero con malinconiche parole; «se solo sapesse che la gloria non è altro che un fardello e che volentieri, se avessi potuto, l’avrei barattata, magari per un pugno di libri, o per un ultimo sguardo al mare».

Non sono bastati lunghi anni per dimenticare le parole che, come fuoco sulla pelle, ricevette per giorni, settimane, mesi: nessuno sembrava comprendere, nessuno sembrava capire. Ma il mondo gli crollò addosso quando, infine, alla presenza di coloro che avrebbero dovuto correggere il suo capolavoro, egli cedette e scoppiò in lacrime, ammettendo quella stessa follia che per anni aveva cercato di zittire. E se Torquato, ormai deluso e affranto, smise di riconoscersi per come si era sempre conosciuto, nemmeno Ferrara, la città che un tempo lo accolse tra onori e moine, contribuì ad alleggerire il peso dei suoi inestricabili tormenti.

Perennemente inseguito dai propri demoni, tentò di ricostruire la sua anima ormai in frantumi, ma a nulla valsero i suoi tentativi: durante le solenni celebrazioni per il matrimonio del Duca, infatti, dopo che il sangue gli diventò lava nelle vene, iniziò ad offendere, con spergiuri e blasfemie, colui che un tempo fu il suo protettore. Era il 24 febbraio 1579. Oggi, prigioniero del mondo prima che di Sant’Anna, l’esiliato sconta ancora la sua pena, mentre gli ultimi anni della sua vita gli scivolano, veloci e indifferenti, dalle dita. Ma i poeti, per quanto tu possa lottare, non puoi incatenarli. Si dice che il vecchio Torquato, ogni notte, chiuda gli occhi per visitare la sua Sorrento e per ritrovarsi, ancora bambino, su quello scoglio, in silenzio a guardare il mare.

Antonio Palumbo

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Antonio Palumbo

Antonio Palumbo, classe 1999, è dottore in Lettere Moderne e attualmente completa la propria formazione con una magistrale in Filologia Moderna presso l'Università degli Studi di Napoli "Federico II". Insegna Lingua e Letteratura Italiana in un istituto scolastico privato e, appassionato di lettura e di scrittura, dedica il suo tempo libero anche alla fotografia naturalistica e al collezionismo di libri e di monete antiche. Insegue il sogno di visitare il mondo e di scoprire tutto il fascino e la complessità delle diverse culture umane.
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