L’isola dei femminielli: la storia oltre la persecuzione fascista
Il mio vero primo approccio con una persona omosessuale è avvenuto alle scuole elementari: mi son chiesta il come un uomo, al quale io associavo determinati comportamenti, potesse essere così aggraziato e potesse avere dei modi così delicati.
Ero poco più che una bambina eppure quell’uomo, quell’insegnante di teatro – alle cui cure i miei insegnanti delle scuole elementari ci hanno affidato – lo ricordo in maniera molto vivida: sempre gioioso, sempre pronto ad ascoltare, amante del suo lavoro e dei bambini.
Ringrazio sempre il cielo per aver avuto le insegnanti che ho avuto, che oltre a formarmi culturalmente, mi hanno formato come essere umano. Mai una parola di troppo nei suoi confronti, mai uno scherno, mai una mancanza di rispetto: è da loro e dalla mia famiglia, cristiana cattolica ma per nulla bigotta, che ho imparato che l’orientamento sessuale non fa la persona e che ognuno di noi è libero e si deve sentir libero di amare. Ricordo, altresì, benissimo quanto fu difficile per i miei compagni di classe accettare una tale “diversità”, in un’età dove per prendersi in giro ci si chiamava “frocio”, gay o “ricchione”. Eredi di una cultura villana e discriminatoria, in noi sopravviveva il concetto eterosessuale. In un piccolo paesino della Campania era difficile dar spazio a una cultura che prevedesse una tipologia di amore diversa da quella tra uomo e donna.
Un imprinting secolare, che ha radici ben più profonde di quel che si possa pensare: la prima testimonianza di coppia omosessuale è quella di due giovani egiziani che vissero durante la V dinastia egizia – è stato ipotizzato un loro legame amoroso dal modo in cui sono stati tumulati, vicini, raffigurati in piedi naso contro naso, mani nella mano e abbracciati, modalità riservata alle coppie sposate.
Nonostante la storia sia pregna di storie di “approvazione” e “accettazione” nei confronti di ciò che è fuori dalla consuetudine, la strada per la completa uguaglianza tra eterosessuali e omosessuali è ancora ben lontana. Lungo il corso dello scorso secolo durante il periodo fascista, addirittura il dittatore Benito Mussolini fece confinare gli omosessuali su di un’isola, poi successivamente battezzata come Isola dei femminielli.
Ci troviamo nell’arcipelago delle Isole Tremiti, sull’isola di San Domino, dai più conosciuti come Isola di San Donato. La storia di quest’isola è sempre stata come di isola di confino: durante il medioevo l’isola è stata sede di vari ordini religiosi siccome essa favoriva pace e riposo per l’anima; nel 1870 il monastero fu soppresso e l’intera isola venne abbandonata fino al divenire colonia penale nei primi decenni del Regno d’Italia (così come era avvenuto ai tempi del Regno di Napoli), sino a diventare colonia penale per persone omosessuali durante gli ultimi anni del regime fascista. L’omosessualità nel codice Rocco era un reato penale: nell’arco di circa 5 anni ben 300 gay furono condannati e confinati sull’isola, sulla quale vi erano abitazioni in cemento senza elettricità e senza acqua corrente; giovani e adulti, studenti e lavoratori, provenienti dal nord e dal sud dello stivale, uomini liberi e uomini condannati da dicerie e pettegolezzi. Sul documento ufficiale del provvedimento leggiamo:
“ritengo indispensabile, nell’interesse del buon costume e della sanità della razza, intervenire energicamente perché il male venga aggredito e cauterizzato nei suoi focolai. A ciò soccorre, nel silenzio della legge, il confino di polizia”.
Una vita da confine, nonostante le cinque lire che lo stato passava loro ogni giorno e la possibilità di ricevere dall’esterno pacchi con cibo e vestiti; qualcuno visse l’isola di San Domino come la possibilità di poter essere finalmente se stesso, ma alcuni – senza motivazione apparente – furono esiliati solo perché oppositori del regime; in alcune testimonianze, tuttora nelle mani dell’Archivio di Stato, si percepisce il disagio per la privazione della libertà:
“è da otto mesi che sospiro la libertà tutti i giorni, in tutte le ore, in tutti i momenti. La vita senza di essa è morta, specialmente per un giovane a 20 anni. Ed io quale delitto, quale male ho commesso per essere privato così di questo grande tesoro? Di quale scandalo mi si può incolpare?”.
Dolore e nostalgia che vivevano al passo con la possibilità di essere finalmente liberi da ogni preconcetto: l’isola per alcuni fu l’unica via d’uscita da una virilità imposta dal regime, più che dalla natura. Le testimonianze arrivate fino a noi raccontano di come il ritorno alla vita reale – con l’entrata in guerra dell’Italia nel 1940 – sia stata vissuta come un ritorno all’amara realtà; una realtà fatta di doveri e di pochi diritti dove essere donna o uomo è più importante della felicità stessa.
Antonietta Della Femina
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