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Parthenope di Paolo Sorrentino: tutti i simboli e riferimenti a Napoli

Parthenope è il film dell’anno: l’ultima fatica di Paolo Sorrentino è stata criticata, amata, recensita, analizzata, studiata entomologicamente.

La bellezza di un film sensoriale, barocco, ricco di stimoli visivi e soprattutto simbolici.

Al centro, la splendida sirena con gambe interpretata da Celeste Dalla Porta, simbolo deambulante della dea arrivata dal mare a fondare la città più bella del mondo. Napoli è Parthenope e viceversa: i simboli scelti con perizia e suggestione da Sorrentino ce la mostrano, scoprendola piano piano.

Parthenope si configura come un omaggio intimo e stratificato a Napoli, una città che il regista racconta attraverso simboli potenti e immagini evocative, costruendo un’opera in cui mito, religiosità e identità si intrecciano. Ogni elemento visivo e narrativo ha una funzione precisa, evocando il cuore complesso e contraddittorio della città.

Parthenope e la sirena

La protagonista, Parthenope, richiama la mitologica sirena che dà nome a Napoli. La sua figura rappresenta la città stessa: un luogo seducente e pieno di contrasti, dove la bellezza si mescola al dolore. La sirena, simbolo del fascino che attrae e distrugge, è anche una metafora della condizione umana, sospesa tra il desiderio di appartenenza e la voglia di fuga. Napoli, proprio come Parthenope, vive in bilico tra la modernità e le sue radici.

Il mare: culla e condanna

Il mare è uno dei simboli centrali del film, rappresentando la memoria, il cambiamento e l’identità. Per i napoletani, è contemporaneamente madre accogliente e forza distruttrice. Sorrentino lo usa come metafora del legame indissolubile con la città: l’acqua che avvolge e il sale che brucia diventano rappresentazioni della vita stessa a Napoli. Il mare è anche il luogo del ritorno, un confine che Parthenope non può evitare di attraversare.

La città e i suoi volti

Napoli emerge come un personaggio a sé stante, un luogo fatto di contrasti. La sua bellezza barocca convive con un senso di precarietà e disordine. I vicoli stretti, le edicole votive, le statue della Madonna sono segni di una fede popolare che non è solo religione, ma anche resistenza. Ogni volto incontrato da Parthenope, ogni dettaglio urbano è un tassello di una storia più grande, una testimonianza dell’anima collettiva della città.

Il figlio di Marotta: l’autenticità nascosta

Tra i personaggi spicca il figlio del professor Marotta, una figura enigmatica che incarna una parte vulnerabile e segreta di Napoli. Questo personaggio, descritto come un “gigante dall’animo bambino”, rappresenta ciò che spesso viene nascosto o non compreso della città: la sua essenza autentica e fragile, che non può essere semplificata o ridotta a cliché.

La religiosità come linguaggio

Le icone sacre che punteggiano il film non sono semplici oggetti di fede, ma veri e propri codici visivi. Sorrentino utilizza la religiosità popolare come metafora del tentativo di dare un senso al caos, di trovare bellezza e conforto nel dolore. Questa spiritualità, così radicata nella cultura napoletana, non è mai convenzionale: è un atto di sopravvivenza, un modo di affermare la propria identità in un mondo in continuo mutamento.

Il ritorno e la riconciliazione

Alla fine, Parthenope torna, perché Napoli è un luogo che non si può abbandonare del tutto. Il ritorno non è una soluzione, ma un’accettazione: del passato, della propria fragilità, della bellezza e delle ferite che definiscono la città e chi la vive. Napoli, come la sirena Parthenope, continua a cantare: una melodia che non può essere ignorata, che richiama sempre indietro.

In Parthenope, Paolo Sorrentino costruisce un racconto fatto di simboli, dove ogni immagine è un riflesso della complessità di Napoli. Il mare, la religiosità, i volti e la stessa protagonista diventano strumenti per esplorare il legame tra luogo e identità, tra bellezza e perdita. Parthenope non è solo un film, ma un’esperienza sensoriale e emotiva, un invito a immergersi nell’anima di una città che non smette mai di sorprendere.

Sveva Di Palma 

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Sveva Di Palma

Sveva. Un nome strano per una ragazza strana. 32 anni, ossessionata dalla scrittura, dal cibo e dal vino, credo fermamente che vincerò un Pulitzer. Scrivo troppo perché la scrittura mi salva dal mio eterno, improbabile sognare. È la cura. La mia, almeno.
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