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Qui non è Hollywood – la serie Disney+ sull’omicidio di Sarah Scazzi è TV di alto livello

Quando i primi poster di quella che all’epoca si intitolava Avetrana – Qui non è Hollywood sono stati diffusi online, il grande pubblico ha gridato “al Maccio”.

Ma una locandina kitsch e volutamente di cattivo gusto non fa il monaco e la serie – dopo diverse traversie giuridiche – è disponibile in streaming su Disney+ con i suoi 4 episodi a partire dal 30 ottobre 2024.

E menomale che nessuno si è lasciato fuorviare da una operazione di marketing ben riuscita, volta a sconvolgere e indignare le masse con un accento forzatamente trash sulle implicazioni – conosciute a chiunque nel 2010 fosse un essere senziente – che hanno portato la cittadina pugliese di Avetrana a essere il centro del mondo per una fine estate.

Qui non è Hollywood trae in inganno e gioca con lo spettatore ancora prima di arrivare sullo schermo, promettendo dunque di essere molto più di quanto si possa pensare. E se il trash c’è, è perché appartiene all’umanità in quanto tale. Anzi, se non avessimo creato noi, con la nostra morbosità e voyeurismo, il caso Avetrana non sarebbe mai esistito. E invece e abbiamo usufruito del dolore, della morte e dei segreti della famiglia Misseri-Serrano-Scazzi senza vergogna o limiti, entrando nelle vite oscure ma anche banalissime dei protagonisti. Protagonisti? No, persone reali, ma ormai è diventato difficilissimo ricordarlo. La serie TV ci prova e ci riesce, pescando nella psicologia oltre che nell’azione, nel personalissimo e nel sensoriale per offrire credibilità e dimensione.

Qui non è Hollywood è un’indagine profonda, che va ben oltre la cronaca nera.

Nel panorama seriale italiano, Qui non è Hollywood di Pippo Mezzapesa emerge come un esempio di coraggio narrativo e sensibilità, capace di riportare al centro del racconto non solo i fatti di Avetrana, ma anche le dinamiche umane e psicologiche spesso trascurate dalle narrazioni sensazionalistiche. La miniserie, come tutti i prodotti riusciti, ha diviso l’opinione pubblica, sollevando interrogativi etici su come raccontare una vicenda che ha segnato profondamente l’Italia.

Perché Mezzapesa ha scelto di raccontare gli uomini, la terra di Avetrana e il substrato culturale di un luogo del profondissimo sud.

Lontana anni luce dal patinato “true crime” di matrice americana, la serie opta per un tono intimo e introspettivo che scandaglia l’animo dei suoi protagonisti, scavando tra le ombre di una famiglia complessa, circondata da una comunità resa quasi irreale dal brusio dei riflettori. Il titolo stesso, Qui non è Hollywood, suona come un monito alla morbosità dei media e ai tentativi, spesso invasivi, di raccontare una tragedia umana come fosse un copione cinematografico. Mezzapesa sceglie, con maestria, di non ripercorrere in modo didascalico i fatti di cronaca, concentrandosi invece sull’assedio mediatico e sulla spettacolarizzazione che trasforma ogni dolore in show. È uno sguardo tagliente che arriva a rivelare quanto, nel nostro voyeurismo, siamo anche noi, spettatori, complici della “seconda morte” della vittima.

Il racconto si articola attraverso le prospettive dei principali protagonisti della vicenda: Sarah, Sabrina, Cosima e Michele. Sarah, interpretata in modo commovente, è mostrata in tutta la sua vulnerabilità, una ragazzina che, in cerca di affetto, trova il suo tragico destino. La cugina Sabrina incarna un’ambizione e un’insicurezza spaventose, che sembrano erodere i confini tra amore, gelosia e ossessione. La madre, Cosima, è un personaggio potente, tratteggiato con rigore e una compostezza glaciale, che richiama la durezza ancestrale delle figure materne del profondo Sud. E infine Michele, la figura più ambigua, un uomo piegato dalle dinamiche familiari, simbolo di una fragilità maschile in balia degli eventi.

Il cast, guidato da Vanessa Scalera e Giulia Perulli, si immerge nei personaggi con una profondità rara, portando in scena figure di carne e sangue, al di là del mito oscuro creato dai media. La loro interpretazione è un atto di immersione totale, che non lascia spazio a caricature o a forzature teatrali. Al contrario, l’uso del dialetto (solo parzialmente sottotitolato) ci avvicina a un senso di autenticità che permette di percepire i ritmi e i toni della vita quotidiana di Avetrana.

L’operazione di Mezzapesa è studiata e potente anche sul piano stilistico: la serie, infatti, sfiora il territorio del realismo magico, aggiungendo al racconto una dimensione quasi ultraterrena che ben si sposa con l’atmosfera dei paesaggi pugliesi. Non c’è il consueto spettacolo visivo a cui ci hanno abituato le produzioni hollywoodiane, ma uno sguardo che oscilla tra il documentario e l’arte. Ogni immagine è curata e intrisa di significati simbolici, come se la tragedia di Sarah fosse solo un capitolo di un mito collettivo che parla di colpa, peccato e redenzione. Il ritmo è lento, volutamente contemplativo, come a lasciare che ogni scena sedimentasse dentro lo spettatore, facendolo riflettere su cosa davvero significhi raccontare il dolore altrui.

In un panorama mediatico che spesso riduce il dramma a spettacolo, Qui non è Hollywood emerge come un’opera necessaria. Non solo un omaggio a Sarah e a chi è rimasto ferito da questa storia, ma anche una critica pungente alla nostra sete di morboso. Non è un’opera facile: è per chi ha il coraggio di guardare oltre l’evento in sé e di chiedersi quale sia la linea sottile che separa il ricordo dalla spettacolarizzazione.

Sveva Di Palma

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Sveva Di Palma

Sveva. Un nome strano per una ragazza strana. 32 anni, ossessionata dalla scrittura, dal cibo e dal vino, credo fermamente che vincerò un Pulitzer. Scrivo troppo perché la scrittura mi salva dal mio eterno, improbabile sognare. È la cura. La mia, almeno.
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