Santo Romano non è morto per una scarpa sporca
È passato qualche giorno dalla tragica morte di Santo Romano, il diciannovenne ucciso con un colpo di pistola nella notte tra il 1° e il 2 novembre a San Sebastiano al Vesuvio.
Sono passati lentamente, questi giorni. Li ho passati ad osservare come la storia della sua morte venisse raccontata dai TG, dai giornali, dai video social espressione dell’interpretazione popolare di quanto accaduto.
Non c’era dubbio: per tutti c’era un’immagine ricorrente nella tragica vicenda, quella di una scarpa. La scarpa dell’assassino, quella calpestata per sbaglio dall’amico che Santo ha provato a difendere. La scarpa di Santo, quella che ha perduto quella notte, stretta forte al petto, senza sosta, dalla sua fidanzata Simona. I giornalisti le chiedono di specificare che si tratti della scarpa del suo amato, le chiedono scioccamente perché la porta con sé. Poi invitano i suoi amici a raccontare l’accaduto di quella notte, e così accostano le due immagini: le scarpe diventano il filo conduttore, l’elemento da sfruttare per garantire l’efficacia narrativa di una storia poi ripresa da tutti i titoli.
“Ragazzo diciannovenne ucciso per una scarpa calpestata”, quante volte lo abbiamo letto in così poco tempo? Quanti video di mamme, che invitano i propri figli a non reagire se qualcuno gli calpesta le scarpe, vi sono spuntati su Tiktok?
Sentire che Santo Romano è stato sparato al petto perché ha provato a mettere pace in una lite in cui il suo amico aveva pestato una scarpa è agghiacciante. È così fugace la nostra vita? È così banale fare del male? Basta una scarpa sporca affinché qualcuno si arroghi il diritto di decidere della vita e della morte di un altro essere vivente? Mette i brividi, ma c’è un problema: questo tipo di racconto si porta dietro un sottaciuto strascico di impotenza. Ha una componente assurda: quella di un folle che ammazza per un paio di scarpe, un insano gesto che esula la nostra comprensione e per questo va fuori dal nostro controllo. Ma questa non è la realtà.
Santo Romano non è morto per una scarpa calpestata. Più o meno per lo stesso principio per cui non ha senso specificare che una vittima di stupro indossava una gonna corta ed era appena uscita da una discoteca: perché deresponsabilizza il colpevole. E a Santo Romano dobbiamo molto di più.
Santo è morto perché un minorenne, da poco uscito dal carcere minorile di Nisida dove era detenuto per spaccio di stupefacenti – e che la sera prima dell’omicidio era stato fermato a bordo di un’auto di targa straniera – andava tranquillamente in giro con una pistola e con l’intenzione di usarla. Quella notte ha solo trovato il pretesto per farlo. La scarpa, era solo il pretesto per farlo. È morto per via di una mentalità criminale che esalta i valori del potere, della sopraffazione, e che conosce un solo modo per regolare i conti. Una smania di farsi rispettare che proviene da un preciso contesto sociale e da un preciso patrimonio culturale. L’assassino di Santo Romano non era un pazzo che ha ucciso perché gli avevano sporcato le scarpe: ha ucciso perché era stato educato a farlo.
La sua violenza ha una matrice precisa, ed è stata alimentata dalle produzioni dell’industria culturale, ma soprattutto dalla noncuranza delle istituzioni: I temi dell’educazione, della prevenzione, dell’inclusione sociale delle fasce marginali non sono al centro del dibattito politico, o delle preoccupazioni di un governo che oggi sembra piuttosto abituato a far finta di non vedere quando si tratta di combattere la violenza. Forse però è arrivato il momento di risponderne, perché oggi non stiamo parlando del solito regolamento di conti tra clan. Stiamo parlando di un cittadino incensurato, di giovanissima età, che crede di uscire a divertirsi con gli amici e, senza aver fatto nulla di male, si ritrova steso senza vita sul cemento, ucciso a sangue freddo da un minorenne in possesso di un arma. Più o meno l’opposto di ciò che dovrebbe fare un ragazzino alla sua età. L’opposto delle prospettive che dovrebbe avere in un paese civile: perché a quell’età si costruisce, non si distrugge.
È un paese civile, quello in cui un ragazzino ammazza e poi se ne va a giocare a carte come se niente fosse? Lo fece l’assassino di Giovanbattista Cutolo – “Giogiò” – lo ricorderete sicuramente. Aveva appena 16 anni quando lo ha ucciso – il 31 agosto 2023 – per uno scooter parcheggiato male; 13 anni al suo primo tentato omicidio. Giogiò aveva 24 anni, era un musicista dell’Orchestra Scarlatti e un ragazzo per bene che non cercava guai. Come Santo, come me, come i vostri fratelli e i vostri amici. Eppure è morto, come Santo, come potrei esserlo io, i vostri fratelli o i vostri amici.
E allora, se un bambino vuole consapevolmente intraprendere una vita da criminale, se non contempla nemmeno la possibilità di un futuro diverso, la colpa di chi è? Del modo in cui è stato cresciuto, del contesto sociale disagiato, certo, anche. Ma anche di un mancato intervento dello stato. Se a 13 anni si viene accusati di tentato omicidio e nessuno si occupa di recuperare quel ragazzino, di chi è la responsabilità quando a 16 anni ci riprova e “fa il suo primo morto”? Se alcuni quartieri continuano a vivere nel terrore che perdere figli sia semplice quanto uscire di casa, chi è che ha ignorato quella disperazione e non muove un dito per quelle famiglie?
“Serve che su Napoli e sulla Campania ci sia un ‘disegno’ vero e lungimirante, frutto di un patto costante tra istituzioni, mondo del Terzo settore, scuola, associazionismo […]: occorre un lavoro dignitoso, una sicurezza senza retorica, un controllo del territorio e un piano educativo […], e non provvedimenti presi sull’onda mediatica e che puntano solo sulla repressione, senza prendere in carico le persone e i contesti”
L’appello delle associazioni e organizzazioni del territorio napoletano
Quella scarpa non c’entra niente, lo sappiamo tutti. Quindi smettiamola, di raccontarci così la storia di Santo Romano. Smettiamola di scegliere titoli che fanno scalpore e che non rendono giustizia a chi oggi non c’è più. Ad una mamma in lacrime, ad una famiglia distrutta dal dolore. Ci siamo persino premurati di far sapere alla popolazione che il marchio della scarpa calpestata era Versace, e che aveva un valore di 500 euro. E cosa dovremmo farcene, noi, di queste informazioni? Perché qualcuno ha anche solo pensato che potessero essere rilevanti? Perché stiamo dirigendo l’attenzione su quanto l’assassino aveva speso per le sue scarpe, alimentando una narrazione che si attiene ai fatti, certo, ma non alle vere cause?
Forse a qualcuno sembra sterile parlare di quali sarebbero state le parole giuste da usare per raccontare la storia di Santo. Che differenza fa? Santo è morto e non tonerà indietro. Non correrà più felice su un campo da calcio, non bacerà più Simona e sua madre non potrà più dirgli di stare attento a non sporcarsi la maglia, mentre mangia il panino che gli ha preparato lei.
Una giusta narrazione non cambierà la sua storia, è vero. Ma il modo il cui la narriamo determina cosa ci faremo, noi, con la storia di Santo Romano.
Possiamo lasciarci imboccare dai media, incontrarci al bar per parlare di quanto “le nuove generazioni stanno andando alla deriva”, lamentarci del “mondo che va a rotoli”, di come oggi si può morire perché non si fa attenzione a dove si mettono i piedi. Pagare il conto, fare spallucce e rintanarci nelle nostre case con la coscienza immacolata, perché tanto, noi cosa possiamo farci di tutte queste cose?
Oppure possiamo dirci che c’è qualcosa da fare. Che ci sono delle responsabilità da assumersi. Che le morti come quella di Santo si possono evitare, perché non hanno niente a che vedere con le cause senza soluzioni che proviamo a raccontarci, e a cui facciamo finta di credere solo perché è più comodo.
Simona Settembrini
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