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Venom: The Last Dance – Un’anatomia (poco convincente) della disillusione

Venom: The Last Dance è al cinema: un’uscita attesissima che pone fine alla trilogia – piuttosto controversa – che ha come protagonista lo sboccato simbionte nero, fuso indissolubilmente con il suo ospite Eddie Brock (Tom Hardy). Sony dice addio a un personaggio importante, lasciando i fan con un retrogusto dolceamaro in bocca tutto da analizzare e snocciolare.

In Venom: The Last Dance, Eddie Brock è un uomo consunto, una figura che sembra portare il peso di un mondo interiore che straborda, una lotta in cui i nemici non sono soltanto alieni ma demoni personali. E, mentre seguiamo il suo cammino insieme al simbionte che abita il suo corpo, assistiamo non tanto a un’avventura di supereroi quanto a una parabola sulla fine di un’illusione, una danza che lentamente sfuma in un cupo requiem.

Tom Hardy incarna Eddie con un’intensità che trasuda fatica e disincanto, come un eroe mitologico che ha visto troppo e perso la voglia di combattere, e la sensazione di un fallimento incombente permea ogni suo sguardo. Venom non è più solo un’entità aliena affamata e irrequieta; è la rappresentazione di tutte le pulsioni e gli impulsi che Eddie ha imparato a reprimere, di quel lato oscuro che non si può esorcizzare ma solo, forse, tenere a bada.

Il film, diretto da Kelly Marcel, è un disordinato mosaico di eventi e scontri, un delirio visivo in cui ogni scena sembra trascinarsi verso l’inevitabile collasso. La trama procede con una linearità illusoria, celando qua e là spazi vuoti, come fossero pezzi di un puzzle che non combacia mai del tutto. In un’epoca in cui il cinema di supereroi si è cristallizzato in formule rassicuranti e prevedibili, Venom: The Last Dance è un’anomalia sgraziata, caotica, che ha però il merito di farci riflettere su cosa accade quando il mito si sgretola.

Ciò che emerge è una storia di alienazione, non solo tra Eddie e Venom, ma tra Eddie e il mondo che lo circonda. Gli Xenofagi, creature aliene con un’avidità insaziabile, rappresentano la minaccia più tangibile, eppure, in un certo senso, sono secondari rispetto al vero antagonista: il tempo, o meglio, l’ineluttabilità del cambiamento. Eddie non è più lo stesso uomo che era quando tutto è iniziato; anche Venom è cambiato, forse stanco anch’egli di questa convivenza forzata. E, così, la loro unione si trasforma in una resa, un ultimo tentativo di aggrapparsi a qualcosa che non possono più sostenere.

In The Last Dance, la regia si aggrappa a una messa in scena di immagini opprimenti e atmosfere cupe, enfatizzando non tanto il combattimento quanto l’esitazione, la vulnerabilità di un uomo che non ha più alcuna certezza. Eddie, in fin dei conti, è prigioniero non solo del simbionte ma della sua stessa identità. In un mondo che pretende eroi inflessibili e infallibili, lui è un’anomalia, un protagonista che trasuda fragilità. In una scena particolarmente potente, Eddie osserva il proprio riflesso come fosse una ferita aperta, un frammento che il tempo non potrà mai ricomporre.

Questa terza installazione di Venom è un’opera disordinata e quasi incoerente, un amalgama di intuizioni che però non riesce a fondersi in una visione coesa. Gli effetti visivi dominano, ma sembra che la narrazione non sappia come mantenere l’equilibrio tra spettacolo e introspezione. Se da una parte le sequenze d’azione soddisfano una fame di adrenalina, dall’altra tolgono spazio a ciò che potrebbe essere un’esplorazione più profonda della relazione tra Eddie e Venom. Forse è proprio in questo scarto che si nasconde l’incoerenza più grande del film: la tensione tra il desiderio di spettacolo e il bisogno di raccontare una storia di disillusione e sconfitta.

Eppure, nonostante tutto, Venom: The Last Dance ha una sua forma di autenticità scomposta e brutale. Il pubblico, abituato a una Marvel lucida e patinata, potrebbe trovarlo disturbante, perfino irritante. Ma il film offre uno spazio di riflessione raro: cosa resta di un uomo quando ha perso il proprio scopo? Eddie è, a modo suo, un Don Chisciotte moderno, un anti-eroe che non ha più una battaglia da combattere, se non quella contro sé stesso.

L’ultima danza di Venom non è un trionfo. Non è la celebrazione di un vincitore. È una cadenza lenta, l’eco di un’era che giunge al termine. Ed è qui che risiede la sua bellezza nascosta, in questo finale cupo che, pur traendo dal caos, ci ricorda che il viaggio degli antieroi come Eddie non è verso la gloria, ma verso l’accettazione di ciò che sono diventati.

Venom: The Last Dance non è per tutti. È un film che sfida lo spettatore, un’esperienza che sembra chiedere troppo e dare troppo poco, ma che risuona, in chi sa ascoltarla, come una melodia dissonante, un tributo alla fragilità umana in un mondo che preferisce ignorarla.

Sveva Di Palma

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Sveva Di Palma

Sveva. Un nome strano per una ragazza strana. 32 anni, ossessionata dalla scrittura, dal cibo e dal vino, credo fermamente che vincerò un Pulitzer. Scrivo troppo perché la scrittura mi salva dal mio eterno, improbabile sognare. È la cura. La mia, almeno.
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