Dalla scuola alla redazione: il lungo cammino delle giornaliste contro il sessismo
Le parole di Riccardo Scamarcio a Belve suonano un po’ come quei tasti del pianoforte premuti tutti contemporaneamente. Stridule, fastidiose, dolorose per l’udito.
“L’uomo è capobranco e la donna gli sta accanto e accudisce i figli”, perché è importante che nel “gioco” delle parti uno faccia “il maschietto” e l’altro “la femminuccia” (dove per “femminuccia” si intende, lo specifica, colei che lava le mutande).
Nulla di nuovo, insomma, solo il patriarcato spiegato semplice per i bambini. Forse Scamarcio era un po’ triste che Francesca Fagnani stesse sottraendo tempo alle faccende domestiche per fargli quell’intervista, che non volesse fare “la femminuccia” ma la giornalista: alzare la voce, esporsi sulle questioni pubbliche, scrivere un libro sulla criminalità organizzata di Roma anche se significa essere minacciata e sottoposta a vigilanza privata.
Ora, quello di Scamarcio è solo un espediente, ma ci serve per cominciare a parlare del bisogno impellente di rimettere le donne “al proprio posto”, tipico ancora di molti (uomini). Soprattutto in Italia e soprattutto se vuoi fare la giornalista: pare infatti che il nostro paese abbia un elevatissimo livello di rischio per quanto riguarda la parità di genere nel settore dei media, e che oggi le donne rappresentino meno di un terzo dei giornalisti in posizioni decisionali.
Therefore, as of today, there are no women leading any of the main traditional or digital media
Media Pluralism Monitor 2024 (Italy results)
Qualcuno potrebbe dire: “Va bene, forse le giornaliste donne non sono ai vertici, ma possono comunque svolgere la loro professione tranquillamente, no?” Non proprio. Le discriminazioni sul lavoro non si limitano ad ostacolare alle donne la scalata al successo, spesso sfociano in vere e proprie molestie e violenze. Avances indesiderate, attacchi verbali e fisici, ricatti a sfondo sessuale per ottenere un posto di lavoro o un avanzamento di carriera: sono tutte realtà svelate dall’indagine del 2019 condotta dalla Federazione Nazionale Stampa Italiana.
Su un campione di mille giornaliste, ben l’85% ha dichiarato di aver subito molestie nel corso della propria carriera. Tra queste, la maggior parte ha dovuto sopportare battute sessiste e sguardi poco piacevoli; il 42% è stata svalutata nel proprio lavoro perché ritenuta poco competente in quanto donna e al 19% sono state richieste prestazioni sessuali in cambio di lavoro e incarichi.
Pare di salire i gradini della piramide della violenza di genere uno per uno. Sia mai che se ne salti qualcuno, che si perda l’occasione di mettere quanta più distanza tra l’uomo e la donna, che sia poco chiaro chi fa il carnefice e chi fa la vittima.
Nella maggior parte dei casi, le molestie sono state perpetrate all’interno delle redazioni, alla presenza di altri colleghi – troppo assuefatti alle “regole” del sistema per pensare di intervenire – o in una stanza chiusa, dove le parole restano segrete e le molestie lontane da occhi indiscreti: messe sotto chiave, lasciate a marcire, a impolverarsi, ma sempre vive, mai dimenticate. A meno che non si scelga di aprire la porta. Fino ad oggi però, il mondo del giornalismo non ha ancora avuto il suo #metoo, e molte fanno fatica a raccontare quello che avviene in quelle stanze chiuse.
Allora proviamo ad uscirne, magari saremo più al sicuro all’aperto: sotto gli occhi di tutti, indaffarata in un collegamento in diretta e con una telecamera a riprendere tutto, chi potrebbe mai importunarmi? Beh, a Isa Balado è successo: è stata palpeggiata e importunata mentre raccontava un fatto di cronaca avvenuto nel quartiere madrileno di Lavapiés. In pieno giorno, sotto gli occhi di tutti, in diretta TV e decisamente a favor di telecamera.
Non è l’unica, chiaramente: anche la giornalista italiana Greta Beccaglia si è beccata uno schiaffo sul sedere mentre stava raccogliendo le reazioni a caldo dei tifosi fuori dallo stadio. Sono bastati un paio di secondi. Due secondi sono troppo pochi per decidere se molestare o meno una persona, ma sono abbastanza se non c’è stato nessun conflitto interiore. Se devo solo assecondare la cultura della violenza a cui mi preparano da anni, due secondi sono abbastanza. Se sono abituato a vedere le donne come il mio oggetto sessuale, due secondi non sono niente.
Anche Greta Beccaglia era in diretta, e il conduttore dallo studio le ha suggerito di “non prendersela”, ma come fa a non prendersela chi non si sente padrona nemmeno della propria intimità, del proprio corpo? Come può non prendersela chi stava solo cercando – riportando le parole della giornalista – di inseguire il proprio sogno?
Chissà quante giornaliste avevano un sogno prima di scontrarsi con questa realtà: prima di essere scoraggiate, trattenute, molestate. Il sogno di essere coraggiose, di non stare in silenzio, di inseguire la notizia, di dare voce a chi non ce l’ha. Forse in molte pensano che sarebbe bello tornare indietro a quando quel sogno sembrava ancora possibile…
E invece no. Perché le donne di questo settore cominciano presto ad abituarsi alle molestie: già da aspiranti giornaliste, già dai luoghi di formazione. Irpimedia, periodico indipendente di giornalismo d’inchiesta, ha infatti recentemente scelto di proseguire il lavoro della Federazione Nazionale Stampa Italiana, concentrandosi però sulle molestie che avvengono nei luoghi di formazione, piuttosto che nelle redazioni. Nel corso di un’inchiesta lunga 8 mesi, sono state raccolte testimonianze di molestie e discriminazioni da 239 studentesse e studenti dei 10 Master di giornalismo italiani riconosciuti dall’Ordine.
“Voi con queste gonnelline mi provocate” è il titolo che è stato scelto per divulgare l’inchiesta, e non è – prevedibilmente – un titolo di fantasia: è la frase che un formatore della Scuola di giornalismo radiotelevisivo di Perugia ha rivolto alle sue alunne durante le lezioni.
Non solo Perugia: le umiliazioni, le vessazioni, le molestie, sono state raccontate dalle studentesse di tutti i Master, da Nord a Sud:
A Bologna, una praticante ha raccontato di aver ricevuto messaggi da un formatore, che sono diventati sempre più espliciti fino a dettagliati resoconti delle sue pregresse esperienze sessuali. L’ha invitata a un evento apparentemente al solo scopo – ha riferito l’ex-studentessa – di cercare di convincerla a salire nella sua stanza. La giovane è rimasta traumatizzata, non ha voluto lavorare con nuovi colleghi, nei mesi successivi, per paura di venire molestata e ha dovuto intraprendere una psicoterapia
Irpimedia
Anche a Roma, al master di giornalismo della Luiss, un docente ha ritenuto opportuno inviare messaggi tramite WhatsApp ad una delle sue studentesse, senza il suo consenso. Ha anche ritenuto opportuno scriverle: «Ti voglio, vieni a casa mia stasera». Oppure: «Ho bisogno di sentire la tua voce, quando l’ho sentita la prima volta mi sono eccitato».
A Bari, invece, una studentessa, in occasione di una attività organizzata dalla scuola, si è vista avvicinare un formatore invitato dalla scuola che le ha chiesto se fosse fidanzata. Quando lei ha risposto in modo affermativo, lui le ha chiesto: «Ah, e il tuo ragazzo ti lascia andare in giro così?». Poi ha iniziato a indicare la sua scollatura e a toccarle i capelli lunghi, che lei cercava di spostare per coprirsi, dicendo: «No, no, fai vedere»
Irpimedia
Tutte frasi pronunciate da rispettabili uomini in giacca e cravatta, ma questo non stupisce. A lasciare senza parole sono i luoghi in cui sono state pronunciate: nei luoghi di formazione andrebbe costruita la speranza, non la delusione e l’amarezza. Inoltre, lo squilibrio di potere tra formatori e alunne è molto più forte di quello che si può creare in una redazione giornalistica: così molestare è ancora più semplice, e ancora più meschino.
Ma perché questi episodi si sono verificati in tutte le scuole di giornalismo italiane, piuttosto che in qualche caso isolato? Perché l’85% delle giornaliste donne ha subito molestie? Sono di fatto molte le ricerche internazionali secondo cui le redazioni di giornali, radio e televisioni sono tra i luoghi di lavoro col più alto tasso di molestie sessuali e sessismo. Ma perché, quindi, proprio le giornaliste?
Diremmo che una maestra, nel suo ambiente di lavoro, non riceve le stesse molestie che riceve una giornalista: perché quello della maestra è un “lavoro da donne”, quello della giornalista no.
La professione giornalistica richiede la volontà di esporsi, di non avere troppi peli sulla lingua, di alzare la voce e avere una certa visibilità. Potrei non dire altro e sarebbe già chiaro il motivo per cui le donne in questo settore vengono ostacolate: insomma, non si tratta esattamente di stare a casa a lavare le mutande. Ma non è tutto: alle inviate per esempio, è richiesto di seguire un determinato avvenimento e di descriverlo in prima persona nel luogo stesso in cui si svolge, ma in piazza una donna è troppo esposta al catcalling e alle molestie, no? Non ci dimentichiamo, poi, che un buon giornalista deve sempre stare sul pezzo, pronto a rincorrere la notizia non appena nasce. Questo richiede di mettere a disposizione molto del proprio tempo, o comunque di essere disposto a lasciare ciò che si sta facendo, ma come fa una donna se deve badare alla casa e ai figli, giusto?
Non parliamo, poi, delle competenze necessarie: il lavoro di giornalista non solo non si confà agli “impegni tipici di una donna”, non si addice nemmeno alle sue conoscenze. Un uomo può sicuramente parlare meglio di sport, di cronaca o di economia rispetto ad una donna, loro lasciamole a discorrere di moda e gossip. Non a caso, molte delle studentesse intervistate per l’inchiesta di Irpimedia hanno riferito di non essere considerate – dai loro formatori – capaci di occuparsi di temi importanti come mafia ed esteri.
Il settore della stampa, soprattutto la televisione, tradizionalmente è stato maschile. A un certo punto le donne hanno cominciato ad essere più visibili e probabilmente gli uomini sentono la minaccia femminile: prima erano loro i padroni e poi sono apparse le donne, sempre più competitive. Penso che questo sia uno dei fattori correlati alle molestie che servono soprattutto per dire alle donne di stare al proprio posto, in secondo piano
Chiara Volpato, ordinaria di Psicologia sociale all’Università degli Studi di Milano-Bicocca.
Sapete cosa si dice di chi non regge la competizione, no? Significa che ha paura. Che ha così paura e così poca stima di sé stesso da credere che l’unico modo per vincere sia non avere avversari.
Simona Settembrini
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Dopo la pubblicazione dell’indagine di Fnsi sulle molestie sul lavoro è nato all’interno del sindacato uno sportello ad hoc.
Tutte le scuole coinvolte nell’indagine di Irpimedia hanno affermato di non essere intervenute per i casi che non conoscevano, ma di essere sorprese e dispiaciute rispetto alle testimonianze riportate. Hanno sottolineato che si impegneranno per monitorare la situazione e lavorare sulla prevenzione.