Shemà, un’opera di Primo Levi: tra ricordi e dolore
Shemà fu scritta da Primo Levi dopo esser uscito vivo dal campo di concentramento di Auschwitz, ad apertura del libro Se questo è un uomo.
Levi iniziò a scrivere l’opera durante i primi giorni trascorsi nel campo di sterminio, proprio per raccontarne l’orrore e la tragicità.
Il titolo Shemà, in ebraico è un verbo imperativo, che significa Ascolta ed apre la preghiera “Ascolta Israele” che troviamo nel libro biblico del Deuteronomio e che nella religione ebraica viene recitata quotidianamente. Primo Levi prende le mosse da questo testo per dare solennità all’invito, quasi un ordine di: ricordare. L’uomo DEVE ricordare, affinché non si ripeta più quell’orrore e nessuno viva quell’inferno fisico e psicologico. L’opera è divisa in tre tappe corrispondenti alle tre strofe. Il “Voi” che la apre e la chiude, si riferisce ai lettori tedeschi (“la maggior parte dei tedeschi non sapevano perché non volevano sapere, anzi, perché volevano non sapere”, Appendice in “Se questo è un uomo”), e a tutti noi, soprattutto alle future generazioni.
Nonostante lo stile realistico tipico dello scrittore torinese, il romanzo ha molti riferimenti letterari. In particolare si possono riconoscere una metafora dantesca, il deportare paragonato al traghettamento delle anime da parte di Caronte, e l’infermiera Ka-be considerata come un Purgatorio. Un riferimento esplicito è l’undicesimo capitolo, “Il canto di Ulisse” , ispirato al canto ventiseiesimo dell’Inferno, in cui Levi cerca di ricordare i versi danteschi per tradurli ad un amico.
La narrazione si basa ovviamente sulla terribile esperienza all’interno del campo di concentramento. Shemà (in ebraico ‘Ascolta’), dice l’autore, “è l’inizio della preghiera fondamentale dell’ebraismo, in cui si afferma l’unità di Dio. In apertura Primo Levi si rivolge direttamente al lettore, coinvolgendolo sin da subito e ciò sottolinea le accuse che l’autore rivolge a tutti. Levi si rivolge a coloro che non hanno vissuto sulla propria pelle gli orrori dello sterminio, che lo segnarono profondamente, per tutta la vita, tanto da spingerlo al suicidio.
A quest’uomo e a questa donna è accaduto qualcosa che risulta inimmaginabile per tutti coloro che, al sicuro nelle loro case accoglienti, non lo hanno vissuto: un orrore quasi impossibile da spiegare a parole, del quale è stato complice anche chi ha fatto finta di non vedere.
Leggendo i versi della poesia Shemà, si percepisce sin da subito l’intento di Levi, l’intellettuale non chiede compassione, ma consapevolezza, è necessario ricordare ciò che è stato e tramandarlo attraverso la memoria alle generazioni future e a chi non l’ha vissuto. Non dev’essere dimenticato e per questo è opportuno ricordarlo ogni momento, soprattutto durante i momenti di svago e divertimento che potrebbero mettere da parte un fatto storico e sociale drammatico.
In Shemà Primo Levi utilizza un linguaggio semplice e diretto, alcune strofe sembrano quasi un ammonimento al lettore affinché non dimentichi ciò che è stato.
Troviamo in Shemà un ritmo efficacissimo determinato dall’uso insistente di anafore e parallelismi, che rendono ancora più incisivo l’appello al lettore.
A Levi interessa raccontare quello che lui stesso ha subìto: non la distruzione fisica, ma quella morale, ed è per questo che la poesia si configura come la prima soglia dell’opera, non è lirica ma meditativa ed epigrammatica. Ciò significa che la scrittura di Primo Levi non è solo una testimonianza o un documento, è anche la rielaborazione di un’esperienza.
Per definire “pacatamente” il razzismo, Levi ricorre ai termini “oggettivi” della medicina e della filosofia. Il razzismo per Levi è «infezione latente» perché come un virus può abitare ogni essere umano. Se dallo stadio «latente», come ostilità, diffidenza e odio inespresso contro l’Altro, il razzismo passa a uno stadio organizzato e manifesto, giunge all’annientamento dell’Altro, «con rigorosa coerenza». Per questo è importante usare la ragione per cercare di comprendere quanto è successo: solo la ragione può essere veramente efficace contro la propria perversione.
La poesia dopo essere stata inclusa nel romanzo omonimo, sarà successivamente pubblicata nella raccolta poetica Ad ora incerta (1984).
Gerardina Di Massa
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Immagine copertina: Pexel