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Bedtime procastination: perché rimandiamo il sonno?

Posticipare l’ora di andare a dormire sacrificando il riposo per avere del “tempo libero”, del tempo per sé?

Questa abitudine ha un nome, bedtime procastination, e sebbene ampiamente diffusa e con seri impatti negativi su salute e produttività, è ancora troppo spesso sottovalutata.

Ci sono dei momenti nella vita in cui vorremmo scrollare le delusioni, i dolori, i dissapori, proprio come facciamo con le notizie che ogni giorno i social e il mondo virtuale in genere ci propinano. Dopo un periodo di buio, ho deciso, forse più per sfidare me stessa che con la consapevolezza di un guru, di distaccarmi dai social: ho impostato un timer (appena 30 minuti al giorno), e ho ricominciato a respirare.

Disintossicarmi dal mondo mi ha fatto ristabilire la connessione con me stessa e con il mondo reale, quello fatto del mio orto dai mille colori, dalla noia, dal leggere e rileggere la stessa pagina di un libro senza però capirci una mazza, dal silenzio assordante della natura, dai miei battiti finalmente calmi e dalla testa leggera che non affossa più sul cuscino, ma libra nell’aria, nel cielo.

Tanti giorni frenetici terminavano con un “ora chiudo”, “ora mi metto a dormire”, ma non arrivava mai l’ora di dormire, avevo paura di rimanere da sola con me stessa, scrollavo, scrollavo, scrollavo e rimandavo il silenzio. Ho scrollato fin quando il mio corpo non ha ceduto: da un giorno all’altro ho cominciato a piangere fino ad avere male allo stomaco per le contrazioni, ho smesso di sorridere di ciò che stavo facendo, ogni minimo ostacolo mi faceva ricredere sulle mie qualità, tutto era l’opposto di tutto.

Non dormivo più bene, non dormivo più – forse è più corretto -, mi sentivo stanca, mi sentivo affannata, mi sentivo come il miglior bersaglio delle burle della vita, mi sentivo in balia di me e della mia quotidianità e della non-quotidianità, scrollavo e vedevo vite perfette, vite perfette che però non erano la mia.

Poi un bel giorno – falsa! -, dopo l’ennesima cazzata, dopo l’ennesimo colpo di testa, ho lasciato tutto. Ho preso l’ennesimo aereo e durante tutto il viaggio ho fissato il vuoto. Ho ripreso a respirare solo quando l’assistente di volo mi ha riportato alla realtà con il suo “Signore e signori, benvenuti a Napoli. Grazie per aver viaggiato con noi. Vi ricordiamo di restare seduti con le cinture allacciate fino allo spegnimento del segnale luminoso. Quando aprite i vani sopraelevati, fate attenzione agli oggetti che potrebbero essersi spostati durante il volo. Speriamo di rivedervi presto a bordo, buon proseguimento e grazie ancora!”

Sono corsa fuori e ho baciato i miei genitori. Ho lasciato il lavoro, ho ripreso a dormire sette ore al giorno, ho perso quei kg di troppo che mi pesavano come un macigno, ho ricominciato a vedere i colori attorno e dentro di me.

Non sono una psicologa, né probabilmente potrei essere “una brava”; l’unica cosa che so è che la vita è una, una soltanto, con i suoi alti e bassi. Ciò che davvero conta nella vita non è conseguire una laurea a 21 anni, non è sentirsi in colpa se non si è superato un esame o se si vuole abbandonare l’università – l’ho lasciata due volte, per poi riprenderla -, non è odiare il lavoro, non è sentirsi oppressi dall’ambiente che si frequenta.

Non è mai troppo tardi per alzarsi da quel maledetto letto, quel maledetto letto dove hai pianto, hai sorriso, hai soffocato il dolore, hai fatto l’amore. Non è mai troppo tardi per ricominciare a vivere senza l’ansia della prestazione, senza l’ansia della perfezione, senza l’ansia del vivere una vita che non senti tua.

Non è mai troppo tardi per abbandonare quel letto che ti tiene a sé a scrollare tra le vite che non ti appartengono. Non è mai troppo tardi: “a una a una si svelano le stelle”.

Antonietta Della Femina

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Antonietta Della Femina

Classe ’95; laureata in scienze giuridiche, è giornalista pubblicista. Ha imparato prima a leggere e scrivere e poi a parlare. Alcuni i riconoscimenti e le pubblicazioni, anche internazionali. Ripete a sé e al mondo: “meglio un uccello libero, che un re prigioniero”. L’arte è la sua fuga dal mondo.
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