Deep sea mining: come distruggere gli ecosistemi marini
I fondali marini sono ricchi di animali e piante ancora poco conosciuti.
Si effettuano continuamente studi e ricerche su quei territori, ma risultano ancora luoghi “inaccessibili” all’uomo.
C’è però un fenomeno molto sviluppato che profana e devasta i fondali, mettendo a rischio l’habitat di tantissimi esseri viventi.
Sto parlando del Deep Sea Mining, ovvero l’estrazione mineraria in acque profonde per portare alla superficie rame, nichel, cobalto e altri elementi.
Di cosa si tratta e quanto può essere dannoso per l’ambiente marino?
Il fenomeno è diventato molto discusso proprio dal 2024, quando l’Autorità Internazionale dei fondali marini ha deciso di rilasciare 31 licenze di esplorazione, in particolare per l’estrazione del cobalto molto presente nell’Oceano Pacifico.
Si prevede che, entro il 2025, le normative siano completate e si potrà partire con nuove trivellazioni nei fondali.
Macchine gigantesche perforeranno i fondali, luoghi silenziosi, tranquilli e bui dove vivono tantissime specie di animali e vegetali. Così facendo interi habitat potrebbero essere spazzati via, e con loro tutti gli abitanti.
Come al solito, l’interesse è quello economico infatti, i fondali marini sono ricchi di metalli preziosi e le aziende non vogliono certo farseli scappare. Questi servirebbero per produrre batterie di auto e cellulari, ma soprattutto armi.
La pressione esercitata sull’Autorità Internazionale dei fondali marini è fortissima e, pare, che stiano per concludere i permessi per iniziare ad estrarre.
Le zone più colpite sono principalmente le Isole Cook e la Papua Nuova Guinea, ma anche l’Italia è al centro di questo fenomeno. Le aziende hanno chiesto di avviare attività estrattive nel Mar Mediterraneo, ai danni dell’ambiente marino.
L’attività di estrazione, secondo i ricercatori, potrebbe provocare nubi sott’acqua e sconvolgere la vita degli abitanti degli abissi. Gli squali, per esempio, potrebbero disorientarsi a causa delle vibrazioni del sottosuolo e perdere la direzione. Questa pratica risulterebbe non solo dannosa, ma provocherebbe danni irreversibili ai fondali marini.
Cosa possiamo fare?
Al momento, si può solo far conoscere il fenomeno del Deep Sea Mining, attraverso canali di informazione e petizioni, per esempio quella di Greenpeace, non solo per far sì che tutti vengano a conoscenza di questa terribile pratica, ma anche per prevenirla ed evitare che uno scempio del genere venga effettuato nei mari a noi vicini.
Per avidità di denaro, l’uomo è disposto a spingersi oltre ogni limite, profanando qualsiasi territorio. Questo è il nostro mondo, è l’unico che abbiamo e tocca noi tutelarlo e difenderlo. Unirsi contro questa pratica risulta quindi un dovere morale nei confronti della Terra.
Martina Maiorano
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