La polizia e le proteste femministe: ordine pubblico o repressione patriarcale?

“Vi dà più fastidio il femminismo del femminicidio”. È la sintesi perfetta di una prospettiva marcia.
È il principio – malsano e paradossale – secondo cui pare più urgente mobilitarsi per reprimere una protesta femminista che per reprimere la violenza di genere. Non è un principio, è un nonsenso.
Uno di quelli che può esistere solo in un mondo in cui ci si batte il petto per tutte le donne morte per mano di un uomo; e ci si riempie la bocca di belle parole sull’importanza dell’educazione affettiva, ma non ci si fa nessuno scrupolo a prendere a calci e pugni una donna, se questa osa manifestare per i propri diritti.
L’8 marzo 2025 si è innalzata una marea transfemminista in occasione della Giornata internazionale dei diritti delle donne, che ha inondato ben 60 città italiane. Grazie alle iniziative del movimento femminista e transfemminista “Non Una Di Meno”, in tutta Italia sono stati indetti scioperi, cortei, presidi e piazze tematiche a cui hanno partecipato a migliaia.
La marea ha travolto inarrestabile tutta la penisola. A Milano, Piazza della Scala – una delle zone rosse del capoluogo lombardo – è stata cosparsa di vernice fucsia: “Questo è uno dei luoghi simbolo di una guerra contro i nostri corpi. Le zone rosse sono un’anteprima del Ddl 1660, un dispositivo poliziesco di profilazione razziale senza precedenti. È stato detto che uno degli obiettivi è allontanare i molestatori, ma ci chiediamo: chi sono i molestatori? […] La nostra lotta transfemminista è una lotta antirazzista, ecco perché oggi questa diventa zona fucsia”, è stato urlato al megafono.
A Roma, terminato il corteo, ci si dà appuntamento nel pomeriggio per continuare a protestare, perché “Nel giorno dello sciopero transfemminista, ad occupare la scena del Teatro Argentina è uno dei simboli del patriarcato italiota. Solo in una distopia, o in uno scherzo di cattivo gusto, è immaginabile che il protagonista della serata dell’8 marzo sia Luca Barbareschi, regista, attore e direttore artistico noto per aver violentemente sminuito le voci delle attrici che grazie al MeToo stanno denunciando anni di molestie e abusi nel mondo del teatro e del cinema”.
A Padova, negli slogan e nei brevi comizi al termine della manifestazione, davanti al municipio e al palazzo dell’università, è stata ricordata la figura della studentessa padovana Giulia Cecchettin e la Fondazione nata – grazie a suo padre Gino – per onorare la sua memoria e combattere la violenza di genere.
Anche a Napoli, durante il corteo che andava da Piazza Garibaldi a Piazza Dante, ci siamo fermate nei pressi dell’Università Federico II. Ad attenderci c’era un fantoccio laureato, accanto al cartello “pensati complice”. Pensati complice di tutti gli abusi di potere e della violenza di genere che non è estranea nemmeno al contesto universitario.
Tutti i cortei cittadini, assolutamente pacifici, hanno avuto luogo in un clima apparentemente sereno, ma non è stato così ovunque. Mentre noi sfilavamo indisturbate, con le volanti della polizia in coda al corteo, a Berlino le forze dell’ordine tedesche presenti alla marcia femminista non hanno tenuto la stessa distanza. La polizia nazionale ha caricato con violenza le donne mentre stavano manifestando a favore della causa palestinese, in nome di una lotta intersezionale. Non si tratta della prima volta che la polizia tedesca si rende protagonista di violenze e non è la prima volta che le vittime sono le donne: pochi mesi prima, nel novembre del 2024, un’altra manifestazione pacifica, indetta a Berlino per celebrare la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, si è conclusa con la polizia che ha preso a pugni la folla e usato spray al peperoncino.
Proviamo a rivivere la giornata di una manifestante donna a Berlino. Magari, la sera precedente alla marcia aveva scritto un cartellone – con tutta la rabbia necessaria – pensando all’uomo che l’ha fatta sentire sbagliata, o a quello che le ha dato uno schiaffo perché non sopportava la sua libertà. Quella mattina aveva indossato gli abiti che più la facevano sentire al sicuro. Oppure quelli che indossava quando, rincasando dall’università, quel ragazzo l’ha molestata in pieno giorno sotto gli occhi impassibili di tutti, insegnandole – da quel momento in poi – a guardarsi sempre le spalle quando cammina da sola. L’aspettativa era quella di trovare un clima di repulsione verso la violenza di genere. Invece si è ritrovata presa a calci e pugni dalle forze dell’ordine, le stesse a cui in passato si è rivolta per proteggere la sua incolumità.
Gli occhi le bruciano, perché la polizia le ha appena spruzzato in viso lo spray al peperoncino. Sta pensando che anche lei stamattina – come ogni mattina prima di uscire di casa – se ne è infilata in borsa uno simile. Quando finalmente riesce ad allontanarsi dalla folla e quando gli occhi smettono di lacrimare, si ferma a riflettere: «Certo, è vero che lo spray al peperoncino è uno degli strumenti che le forze dell’ordine hanno in dotazione per reagire a comportamenti violenti» – pensa – «ma tutti sanno che lo spray antiaggressione è pensato soprattutto per la difesa personale delle donne. Perché usarlo proprio contro di noi? Durante una marcia pacifica contro la violenza di genere? E soprattutto, a quale comportamento violento stavano reagendo?».
Questi elementi possono essere trascurati? O sono quelli che ci consentono di scindere tra tutela dell’ordine pubblico e semplice violenza di genere in divisa?
Perché il patriarcato è una stanza di specchi, lo sappiamo tutti. Esibisce mille facce: alcune le noti subito, hanno il sapore dei manganelli e il colore del sangue. Altre sono dissimulate, codarde, equivoche. A Roma, per esempio, non c’è stato nessun pestaggio da parte della polizia, ma possiamo dire che fosse garantito un clima realmente sereno se – in uno dei principali teatri della Capitale – il protagonista della serata dell’8 marzo era un uomo che ha sbeffeggiato la disperazione e l’oppressione delle donne molestate? In un’intervista rilasciata a Repubblica l’anno scorso, l’attore Luca Barbareschi non si è fatto nessuno scrupolo nell’affermare che «le attrici denunciano le molestie solo per farsi pubblicità». Ecco, il patriarcato agisce in tanti modi. Alcuni sono più insidiosi – o silenziosi – di altri. Talvolta sono semplici elementi di disturbo che, in fin dei conti, “non fanno del male a nessuno”. È solo un attore che si esibisce a teatro, con uno spettacolo, tra l’altro, esilarante, che nulla ha a che vedere con i temi della violenza di genere o con la protesta femminista prevista in giornata (anche se tutte sapete cosa pensa al riguardo e – se non si fosse dichiarato indisposto e non avesse cancellato la serata – avreste dovuto dividere il palcoscenico della giornata con lui). Perché le donne se ne dovrebbero lamentare?
Talvolta il patriarcato si mantiene sulla sottile linea dell’equivoco, così da insinuare il dubbio che forse è vero che siamo esagerate, isteriche e un po’ nevrotiche.
Perché siamo sempre nervose e arrabbiate, perché non ci accontentiamo mai. Come se avessimo tutto e non chiedessimo, semplicemente, di essere libere di esistere e di essere.
Libere di protestare e libere anche, finalmente, di non farlo più, perché ci meritiamo tutto e vogliamo tutto. Solo quando lo avremo ottenuto si abbasserà la marea. Fino a quel momento, però, non ci sarà resa, e tutti i sostenitori del patriarcato continueranno a vivere esattamente come noi, con l’acqua sempre alla gola.
Simona Settembrini
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Immagine realizzata con AI