Ognuno muore solo: Hans Fallada e banalità del bene, il libro

Tutti abbiamo bisogno di trovare un senso se qualcuno muore.
Se siamo fortunati lo possiamo trovare in un tramonto sul mare, in un dipinto, in un fiore, in una fotografia o tra le pagine di un libro.
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«Ognuno muore solo» è uno dei miei libri preferiti, e il suo titolo è diventato, per me, nel corso del tempo, una sorta di mantra. È uno di quei libri che ti fa sgranare gli occhi, che ti fa riflettere, che ti sconvolge dentro. Non è un semplice romanzo, ma rappresenta un inno alla vita prima di essere anche un inno alla morte. E, come spesso accade leggendo grandi romanzi, tra le sue pagine 740 pagine ci siamo in qualche modo tutti noi.
Scritto da Hans Fallada e pubblicato postumo nel 1947, è basato sulla vera storia di Otto ed Elisa Hampel (nel romanzo chiamati Otto e Anna Quangel), una coppia tedesca di coniugi di mezz’età che ha compiuto un tacito e folle atto di resistenza contro il regime nazista durante la Seconda Guerra Mondiale.
Non voglio dilungarmi troppo sulla trama – sperando che il lettore sia incuriosito da questa mia riflessione personale e decida di comprarne una copia… non voglio spoilerare troppo.
Il romanzo, ambientato a Berlino durante la guerra, ha come protagonisti i coniugi Quangel, una coppia di anziani coniugi di estrazione operaia (lui caporeparto, lei casalinga) che vive una semplice e monotona vita urbana, finché non riceve la notizia della morte al fronte del loro unico figlio. La loro vita allora prende una piega del tutto inaspettata.
Questo tragico e improvviso evento li spinge ad intraprendere una tanto silenziosa quanto pericolosa campagna di resistenza contro Hiller e il regime nazista. Carta e penna alla mano, ogni domenica scrivono cartoline contro l’ideologia tedesca che abbandonano per la città, sperando che possano passare di mano in mano per creare una ribellione collettiva. Ne scrivono ben 276. Le loro azioni, seppur decisamente modeste, sono cariche di rischi e pericoli tanto che, alla fine, attirano l’attenzione della temuta e odiata Gestapo.
È un libro lungo ma che si legge con un unico respiro. Non è un mero testo storico, ma un vero e proprio romanzo psicologico: trovare un senso alla morte è anche, per i protagonisti, trovare un senso alla vita.
Chi resta, i coniugi Quangel, deve riscattare la morte del figlio e per farlo decide di non fare altro che essere chi è: una coppia di anziani pacati, silenziosi, banalmente “normali”. Non ci sono atti di eroismo estremo e disincantato, ma gesti di estrema normalità e quotidianità.
È un libro che mi ha fatto male, che mi ha intrappolata tra le pagine in un muto urlo di dolore. Il dolore di chi resta è un dolore che tutti noi proviamo o abbiamo provato almeno una volta nella vita.
È vero che, a conti fatti, ognuno muore solo, ma la morte ha sempre un significato, sia per chi resta che per chi se ne va.
Ed è forse anche vero che si muore due volte quando sopravviviamo alla morte di chi amiamo.
La morte è l’unico momento della vita in cui ci rendiamo conto di essere veramente impotenti. Non possiamo farci niente: a tutto c’è rimedio, tranne che alla morte. Ma morire significa la fine dell’esistenza corporea, non dell’amore, del ricordo o (per chi ha una qualsiasi fede) dell’anima. Ci dobbiamo confrontare con qualcosa di talmente grande che risulta “troppo grande” per essere spiegato: la morte la si comprende solo essendo in vita, non si può morire se non si è vivi.
Ma in questo libro c’è molto di più, non c’è solo la morte. Fallada ci parla della resistenza al dolore e alla paura di due coniugi che sfidano un regime basato sul terrore, non con gesti estremi ed eroici ma con cura e con atti d’amore, molto piccoli e molto coraggiosi. Ci parla della solitudine di fronte alla morte e della solidarietà durante la vita, di moralità e di libera scelta, di etica, di umanità, di integrità. Ci parla anche di speranza, di dignità, di perdono e di resilienza.
Alla base di ogni loro azione c’è un velato e malinconico, mai veramente espresso, senso di colpa per la morte del figlio, evento che di fatto diventa il motore, la forza, per esprimere il dissenso, e quindi essere in prima linea in una resistenza poco rumorosa. Resistere diventa una forma di espiazione dalla colpa, unico modo per dare un significato alla perdita di un figlio.
Se Hannah Arendt disseziona anatomicamente la banalità del male, Hans Fallada celebra il caleidoscopio della banalità del bene.
«[…] se avessimo avuto un uomo che ci avesse detto: dovete agire così, questo o quello è il nostro piano. Ma se ci fosse stato un uomo simile in Germania, non avremmo mai avuto un 1933. Così abbiamo dovuto agire ognuno per conto suo, e siamo stati presi uno per uno, e ognuno di noi morrà solo. Ma non per questo siamo soli, Quangel, non per questo moriamo inutilmente. A questo mondo nulla accade inutilmente, e poiché combattiamo per la giustizia contro la forza bruta, saremo noi i vincitori, alla fine».
Elisabetta Carbone
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Immagine generata con IA