Insegnare: un mestiere da femmina

Cosa vuol dire insegnare oggi? È una missione? La maestra è una seconda mamma?
L’insegnante deve sopperire alle mancanze educative della famiglia?
Quanti ostacoli si devono superare prima di entrare a far parte del mondo del lavoro?
La vocazione
L’insegnamento, oggi più che mai, è un mestiere che porta con sé una serie di sfide uniche, in parte dovute a un retaggio culturale che lo vede come una professione femminilizzata. La massiccia presenza di donne tra gli insegnanti e la natura stessa delle mansioni legate alla cura, alla pazienza e all’empatia, contribuiscono a questa visione. Ma non è solo questo a definire l’insegnamento come un “lavoro da donna”: la sua stessa percezione sociale e le aspettative a essa associate continuano a influenzare profondamente il modo in cui viene vissuto questo mestiere.
Il ruolo dell’insegnante, infatti, è spesso inteso come un “prolungamento” di quello materno. In una società che ancora attribuisce alle donne il ruolo di “cura” in ambito familiare, l’insegnante viene visto come una sorta di “seconda mamma”, anche se tale attribuzione è ingiustificata. Non si tratta di un lavoro di “cura” intesa in senso stretto, ma di una professione educativa che va ben oltre la semplice assistenza. Tuttavia, proprio questa visione rischia di de-professionalizzare il lavoro, rendendo l’insegnante meno riconosciuto e valorizzato per la propria preparazione e competenza.
Il termine “vocazione”, usato per descrivere l’insegnamento, non è neutro. In effetti, lo si associa spesso a un sacrificio personale, come se l’insegnante dovesse essere sempre disponibile, sacrificando la propria vita privata e accettando un salario basso in cambio di una missione di educazione e crescita. La retorica della “missione” porta con sé il rischio di un lavoro non riconosciuto e poco remunerato, quasi come se fare l’insegnante fosse una forma di “vocazione religiosa”, e non una professione a tutti gli effetti.
La verità è che l’insegnante non è una “seconda mamma”. La sua funzione è quella di educare, non sostituire il ruolo della famiglia. La prima educazione spetta alla famiglia, che ha il compito di trasmettere valori e principi, mentre l’insegnante, con la propria professionalità, ha il compito di stimolare la mente degli studenti, di guidarli nel loro percorso formativo e di prepararli per il futuro.
Insegnare non è una missione, non si è Madre Teresa di Calcutta, né Santa Maria Goretti. È un lavoro come un altro, e come tale merita rispetto, dignità e un salario che rifletta il suo valore. E quando un insegnante torna a casa, non è più “la persona che educa”, ma una persona con diritti e bisogni da tutelare. L’insegnante è una persona, non un’entità sacrificata sulla base di un ideale romantico e non realistico.
Il ricatto implicito nella scuola
Un altro aspetto spesso nascosto del lavoro degli insegnanti è il “ricatto implicito” che esiste nella gestione del personale scolastico. Sebbene non vi siano obblighi formali, molti insegnanti si trovano sotto pressione a causa di dinamiche che li spingono a fare molto di più di quanto sarebbe loro richiesto, o addirittura oltre i loro limiti professionali. Questo accade attraverso forme sottili di persuasione, che fanno leva su un senso di comunità e appartenenza alla scuola, ma che nascondono anche minacce più concrete e tangibili.
Ad esempio, la “fidelizzazione” spinge gli insegnanti a sentirsi parte di una comunità scolastica che deve lavorare per mantenere alto il prestigio dell’istituto, offrendo un servizio educativo di qualità. Quante volte ci siamo sentite dire, durante un colloquio di lavoro, “qui siamo come una famiglia”? Ma questo senso di appartenenza, purtroppo, spesso si traduce in una pressione che porta a dover sacrificare tempo ed energie al di fuori degli orari di lavoro.
Un altro aspetto legato a questo “ricatto” è la minaccia di perdita del posto di lavoro. Gli insegnanti sono spesso spinti a contribuire al mantenimento della buona reputazione della scuola, evitando che cali il numero degli studenti e, di conseguenza, che vengano a rischio le iscrizioni e i posti di lavoro. La competitività e la necessità di mantenere un’offerta formativa allettante diventano, in questo caso, fattori che non dipendono solo dalla qualità dell’insegnamento, ma anche dalla capacità di essere costantemente “in prima linea” nelle dinamiche scolastiche.
Infine, c’è il rischio di “dimensionamento scolastico”, ovvero la chiusura di plessi scolastici che non riescono a mantenere numeri sufficienti di iscrizioni. Gli insegnanti vengono spesso coinvolti in iniziative che garantiscano l’afflusso di studenti, per evitare che le scuole vengano chiuse, con la conseguente perdita di posti di lavoro. Questi sono esempi di “ricatto implicito”, in cui gli insegnanti si trovano a dover rispondere a esigenze amministrative e strutturali, senza che queste siano sempre compatibili con le loro necessità professionali e personali.
In conclusione, fare l’insegnante oggi non significa solo trasmettere conoscenza: è una professione che, purtroppo, continua a essere svalutata, non solo dal punto di vista economico, ma anche a livello sociale e professionale. E se la scuola vuole davvero valorizzare i suoi educatori, è fondamentale che cambi la percezione dell’insegnamento, riconoscendo il lavoro degli insegnanti non come una missione, ma come una professione che merita rispetto e adeguati riconoscimenti.
Il mondo infinito dei concorsi
Insegnare oggi è un percorso che richiede molta più di passione e dedizione. È un cammino che passa attraverso una serie di ostacoli burocratici e accademici che sembrano moltiplicarsi con il tempo, rendendo la professione sempre più difficile da raggiungere. Se in passato diventare insegnante era più una questione di passione e impegno, oggi è un vero e proprio labirinto fatto di concorsi, esami, crediti formativi universitari (CFU) e corsi di specializzazione. Il mondo dei concorsi per insegnanti è un universo complesso che spesso appare come una “giungla” regolamentata da normative e procedure che non sempre sono chiare e che mettono alla prova anche i più determinati.
Il primo passo per intraprendere la carriera di insegnante è la laurea. Tuttavia, non si tratta di una laurea qualsiasi. Per insegnare nelle scuole medie e superiori, ad esempio, è necessario avere una laurea specialistica o magistrale in una disciplina specifica, che rispecchi le materie che si intendono insegnare. Ma non è sufficiente: questa laurea è solo il punto di partenza per una serie di altri step, che si moltiplicano a seconda del tipo di incarico che si desidera ottenere.
Oltre alla laurea, un altro elemento centrale per diventare insegnante sono i crediti formativi universitari (CFU). Questi crediti, che si acquisiscono durante il percorso di studi universitari, sono indispensabili per partecipare ai concorsi pubblici e per ottenere abilitazioni specifiche. Per ogni tipo di scuola o materia, è necessario accumulare un determinato numero di CFU in discipline specifiche. Questo significa che l’insegnante del futuro deve essere costantemente impegnato in corsi, esami e formazione continua, non solo per completare il proprio percorso di studi, ma anche per mantenere aggiornate le proprie qualifiche. La formazione non finisce mai, diventando un impegno che si protrae ben oltre il conseguimento del titolo di studio.
Una volta completata la laurea, i CFU, il tirocinio e il punteggio, l’aspirante insegnante deve affrontare la sfida finale: il concorso pubblico. Il concorso per insegnanti è una delle fasi più critiche, spesso motivo di ansia e stress per molti candidati. I concorsi, infatti, sono ad accesso limitato e le prove sono altamente selettive, con test scritti, orali e prove pratiche. Ogni anno, migliaia di aspiranti insegnanti si presentano a questi concorsi, ma solo un numero limitato riesce ad accedere alle cattedre. La difficoltà e l’incertezza del concorso sono amplificate dal fatto che le assunzioni nelle scuole pubbliche dipendono dalla disponibilità di posti e dal budget statale, creando una sorta di giungla in cui anche i più preparati rischiano di non trovare spazio. Senza contare che è diventato il “posto fisso” a cui ambisce anche chi fino a ieri aveva fatto tutt’altro mestiere nella vita, ma avendo un diploma abilitante, si lancia nel mondo della scuola attratto dai concorsi pubblici.
In definitiva, fare l’insegnante oggi non significa solo avere passione per l’educazione e il desiderio di trasmettere conoscenze. Significa affrontare un lungo e complicato iter burocratico che include laurea, CFU, TFA, concorsi e, in alcuni casi, anni di precariato. La missione dunque è da parte di chi sceglie di fare questo lavoro, perché più che un percorso formativo, sembra ormai un pellegrinaggio verso una meta irraggiungibile. Gli insegnanti sono chiamati a compiere un percorso arduo e, nonostante tutto, si trovano spesso a dover fare i conti con un sistema che non sempre riesce a valorizzare il loro impegno, rendendo il cammino verso la cattedra sempre più difficile e incerto.
Lucia Russo
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