Primo Piano

Resta Libero

Avevo in mente di scrivere qualcosa dal primo momento. Sono sette giorni che soffro di assenze.

Non sono riuscita a prendere il pc in mano, accenderlo mi pareva un passo gigante, pigiare i tasti ancora di più, così, mentre mi ammalavo di assenza, di telefonte non fatte, di voci non ascoltate e di mani non toccate, mi sono a poco a poco spenta. Ho perso la luce con cui ho sempre tentato di camminare.

Sette giorni fa ho perso mio padre, così, senza un senso, nel buio del primo sorgere del sole, in un dolore lancinante tra petto e stomaco. Così mi sono ammalata di assenza, perdendo le sfumature di voce e i colori della vita. Immediatamente ho pensato di esprimermi qui, sul mio giornale, nel posto che anni fa ho creato per diffondere qualcosa di bello, nel posto che mi consente di parlare la mia lingua naturale.

Ma non ce l’ho fatta.

Mio padre, Antonino De Nicola, era un uomo multiforme, controverso, sfaccettato, assolutamente non perfetto e io lo amavo. Lo amavo così tanto da spaventarmene, da fingere di amarlo di meno, per paura di essere abbandonata. Così, per il terrore di perderlo ancora, come già lo avevo perso tanti anni fa, ho legato moltissimi lacci fatti di corda sul cuore, evitando il dolore. La corda, però, aveva dei minuscoli solchi, quasi impercettibili, distaccati dal resto dei filamenti e lì, lui si è insinuato, entrando e irradiando la me adulta col suo tepore.

Mio padre è morto una settimana fa, congelato dal dolore, ucciso dalla voglia di mettere ogni cosa in ordine e io, guardandolo in quel letto bianco, vestito con i suoi panni per dormire, ho aspettato aprisse gli occhi, ho aspettato tornasse da me, ma non è accaduto. Ora al suo posto c’è l’assenza, ci sono i sogni dolorosi e le lacrime fitte, c’è la stessa volontà di non piangere mai più, di smetterla di versare dolore, ma la costante incapacità di abbandonarlo. Caro papà, sono io, Benedetta, la tua figlia maggiore: mi hanno detto che a parlare di me ti brillavano gli occhi, che io e Anna eravamo l’unico motivo per cui ti agitassi davvero, senza rabbia, solo agitazione, per una volta. Ho scoperto di te cose che già intuivo, ho scoperto che non sei mai stato perfetto e ho scoperto che eri molto più generoso di quanto volessi mostrare. Ti sto scoprendo ancora e ancora, ogni giorno, tentando di rimuovere quella maledetta immagine di te, steso, nel letto più bianco che abbia mai visto.

Ora la vita mi spaventa, ho paura di lavorare, di respirare, di andare avanti, di ascoltare, ho paura che qualcuno mi dica di riprendermi e ho paura di cosa farò quando, tornando da lavoro, non potrò chiamarti e raccontarti la mia giornata, ho paura e sono arrabbiata. Non con te, tu non potevi sapere, io sono arrabbiata col dolore, con il male, con la non casualità della tua morte. L’ho fissata negli occhi pieni di vuoto e in quel vuoto ho visto me stessa, la sagoma alta un metro e sessantacinque, i capelli bruni e il carattere forte. Sono il tuo riflesso imperfetto, papà mio.

Io vorrei tanto credere che ora sei lassù, con la tua cagnetta adorata, vorrei tanto figurarti in cielo, felice, mentre corri spensierato, finalmente libero da tutto ciò che ti opprimeva. Lo desidero con tutta me stessa, mi aiuterebbe a vederti ancora e ancora, ma non ci riesco, sono imbevuta dal tuo pragmatismo genetico, dalla lontanza verso la fede e per me, cenere alla cenere, polvere alla polvere. Non ho bisogno di oppio, tu non ne hai bisogno, non sei mai stato così e in questo ci siamo sempre rispettati. Però lo so, so benissimo che ci sei. Se la materia non si ditrugge e non si crea, ma si trasforma, allora… forse…

Allora, forse quella cenere sei tu e da quella cenere emerge l’esperienza di noi, il sesto senso, l’anima, se preferiamo: da lì non muore mai il tuo dono, non muori mai nei nostri corpi e nemmeno quando anche noi saremo cenere, smetterai di esistere, perché rimarrai in chi permane e così, anno dopo anno, mese dopo mese, secolo dopo secolo, fino a quando nessuno ricorderà di noi, l’esperienza di noi rimarrà, trasformata e inscindibile. Tutt’uno con l’universo, sicuramente, sempre libera.

Tra le stelle vedrò te che mi dici di non preoccuparmi, che non cadrò dalla bici senza ruote, nel mio cuore ti scoprirò ad aprire la porta del tuo studio di Meta, mentre io attendo quel momento solo per osservarti, nelle mie mani sentirò sempre l’abbraccio sudato che ci desti dopo la maratona e nelle lacrime che sto versando, sentirò il sapore delle tue quando ci dicesti che ti eri sentito amato. Forse era la prima volta. Nei miei occhi ci sarà sempre lo stesso vuoto mentre fisso cosa ti ha ucciso, nella lingua il gusto del limoncello bevuto a Natale, nelle orecchie il livido blu della morte, nelle guance la tua mossa tipica, quella del rigonfiamento. Tutto ricorderò di te, papà mio, tutto, sempre, lo porterò ai miei figli e se non ne avrò, ai miei amici, a chi amo e chi odio. A chi odio dirò quanto il mondo ha perso, perdendo te, a chi odio lascerò il letto vuoto, il tuo mai, mi siederò sempre al tuo capezzale e quando verrà il mio momento, quando la mia anima volerà con la tua, vorrei tanto che mi svitassi le ruote della bicicletta rosa, così potremo pedalare liberi e, finalmente, mai più separati.

A mio padre, che ha corso una vita intera e ha raggiunto l’amore vero.

Benedetta De Nicola, figlia.

Ringrazio La Testata tutta, l’editore, la direttrice per lo spazio che mi è stato concesso al fine di ricordare una persona importante.

Benedetta De Nicola

Prof. di lettere, attivista fan Marvel da sempre. Ho fondato La Testata e la curo tuttora come caporedattrice e art-director.

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