“Alba”: perdersi in Scozia per ritrovare se stessi
“Welcome to Edinburgh. It’s good to be home”, citava un cartellone d’accoglienza all’aeroporto di Edimburgo, una frase alla quale non si dà troppa importanza quando sei una ragazza con in testa solo la voglia di staccare un po’ la spina ed allontanarti dalle piccole delusioni della vita.
Scelsi la Scozia un po’ per gioco, mi aveva incantato il fatto che in gaelico si pronunciasse Alba. Lo vidi come un segnale, una sorta di nuovo inizio, e a novembre partii.
Ciò che non potevo immaginare era che, di lì a poco, Edimburgo non sarebbe stata per me solo la famosa capitale scozzese, bensì la mia Edimbrah, e l’avrei vissuta non più da turista, ma come una del posto.
Edimburgo è sinonimo di gotico: dagli edifici sulla Royal Mile alle cattedrali come quella di Saint Giles è l’apoteosi di guglie vertiginose e archi ogivali, una sinfonia di forme e colori per gli occhi dei nostalgici.
I primi giorni, io e le mie inseparabili compagne di viaggio attraversammo la città visitando i maggiori luoghi d’interesse, fra cui il Castello di Edimburgo e quello di Holyrood, con gli spettacolari resti di quella che sarebbe dovuta essere l’altrettanto spettacolare Holyrood Abbey, la chiesa adiacente al palazzo distrutta in un incendio. Quello stesso giorno, spinte da un senso d’avventura e pericolo, decidemmo di scalare Arthur Seat, l’imponente vetta alle spalle di Holyrood. Era quasi notte e stava per piovere.
Ancora oggi, giuro, non ci è ben chiaro cosa ci fosse passato per la testa.
Un vento artico, fortissimo, cominciò a soffiare prendendoci alla sprovvista. Eravamo tre agglomerati di sciarpe e cappotti, in procinto di rotolare giù a valle senza troppi complimenti. Arrivate in cima per una sorta di volontà celeste, dopo essere quasi annegate nelle pozzanghere di fango, assistemmo ad una scena surreale. E no, non era lo spettacolare tramonto rosso che faceva capolino fra le nuvole. Lì, proprio vicino a noi, un ragazzo in pantaloncini e maglietta a maniche corte ci osservava come se fossimo un’apparizione mistica.
Immaginate la situazione. Lui ci guardava. Noi guardavamo lui. Da entrambe le parti, la taciuta domanda di come la selezione naturale non avesse ancora fatto il suo corso.
Superate le diffidenze iniziali – e gli strati di stoffa che coprivano i volti – il ragazzo spiegò che proveniva da un paesino al di là della montagna, nei pressi del Duddingston Loch. La sua sola allusione al pub più antico in Scozia ci spinse il giorno dopo a prendere l’autobus per dirigerci in quella località sperduta fra le colline dove, dopo esserci fermate ad ammirare per ore il lago di Duddingston, decidemmo di trascorrere la giornata proprio allo Sheep Heid Inn, il pub risalente al XIV secolo, passando da un crumble alle mele ad un Moscow Mule con semi di melograno.
Partimmo successivamente per un tour nelle Highlands. La nostra guida, Graham, un folletto di Glasgow in tutto e per tutto e bevitore accanito di Irn Bru, intratteneva il tempo in autobus raccontando leggende di fate e clan in guerra fra le montagne di Glen Coe. Il nostro cuore si riempiva racconto dopo racconto, attraversando Loch Ness ed il castello di Eilean Donan al confine con l’isola di Skye, odorando l’aria di mare di Portree, capoluogo dell’isola, un posto dove il tempo si è fermato fra il riflesso dell’acqua e la dolcezza delle cose comuni.
Skye fu una scoperta, dalla cascata a picco sul mare di Kilt Rock fino allo Sligachan Old Bridge, il ponte del re delle fate. Ed ancora Inverness, capitale delle Highlands, così piccola ed accogliente, che a metà novembre era già stata addobbata con decorazioni natalizie.
Ogni volta che pioveva, Graham, con il quale si scatenò una solenne guerra di palle di neve in una piazzola di sosta sulla strada del ritorno, sorrideva ed esclamava contento: “Tranquilli miei cari, per noi non è pioggia ma raggi di sole liquidi”.
Tornammo ad Edimburgo talmente sazie di gioia che ci sembrava di sognare.
Nonostante l’amore per i paesi nordici, restiamo gente di mare. Nei giorni a seguire, visitammo la meravigliosa spiaggia di Portobello, con il suo lungomare costeggiato da casine colorate. Tutto lì era immerso in una malinconica luce azzurra che ricordava quasi un quadro del periodo blu di Picasso.
Ci spingemmo addirittura fino all’orto botanico alla ricerca di scoiattoli.
La mattina facevamo colazione in un bar sulla Royal Mile vicino al nostro ostello, alternavamo l’English breakfast ai pancakes ed al croque madame, presentando giustificazioni becere sul dover assimilare energie per affrontare la giornata.
La sera c’era aria di festa, sempre. In ostello ci consigliarono lo Stramash, un bar sulla Cowgate, una parallela alla Royal Mile. “Stramash in gaelico significa rissa”, spiegarono. Un nome promettente. Quelle serate furono indimenticabili, passate a ballare sulle note di “Mr. Brightside” dei The Killers.
Rientravamo tardi in camera, di quelle notti ricordo la fame del dopo serata, una pizza ed un kebab consumati davanti ad una finestra che dava sulla strada.
Porto ancora il sapore di quelle sere in cui tutto ci sembrava possibile, e lo farò per sempre.
La partenza fu drastica, ma promisi sull’altura di Calton Hill che sarei tornata. Quel viaggio, nella sua integrità, mi aveva aperto mille orizzonti. La Scozia aveva curato dolcemente il mio cuore infranto, caricandomi di una nuova energia positiva.
E, quest’anno, ho mantenuto la promessa.
“Country roads, take me home, to the place I belong” cantava John Denver in cuffia, sull’aereo. Appena atterrata, il manifesto era ancora lì, quasi ad aspettarmi. Con gli occhi umidi, lo rilessi.
“Benvenuto ad Edimburgo, è bello essere a casa.”
E non ho potuto fare a meno di pensare: “Sì, lo è davvero.”
di Ilaria Aversa