Cibuntu: tutto quello che non c’è da sapere
Nell’isola di Giava, tra le variopinte flora e fauna, una curiosa tribù si nasconde tra le foreste indonesiane.
Da occidentali, è strano pensare che nel mondo esistano ancora popolazioni sottosviluppate e indigene, eppure è così.
Quello che subito balena in mente ad un uomo che ne viene a conoscenza, è che probabilmente bisognerebbe aiutarle a progredire, introdurle alla modernità, metterle dinanzi alle avanguardie del nuovo millennio. È un pensiero lecito, ma chi dice che sottosviluppo e povertà siano necessariamente collegati?
Il nostro tenore di vita fa sì che ad una condizione agiata corrisponda un benessere sociale. Nella tribù giavanese dei Cibuntu, invece, non è affatto così.
L’arretratezza che culla i membri di questo gruppo sociale estremamente ristretto, in contrapposizione con lo sviluppo di altri stati, ha rafforzato la loro identità.
Si tratta di un gruppo etnico locale con dei valori, religiosi e non, ben precisi.
La cultura islamica che lo caratterizza è fortemente sentita e lega indissolubilmente l’uno con l’altro. Questo filo immaginario che cuce la rete umana dei Cibuntu è ben resistente alle influenze esterne. La modernità è rigorosamente filtrata e ciò che riesce a penetrare è solo la riconoscenza che il governo indonesiano e il resto del mondo riescono a provare. A controllare questo “traffico di cultura”, se così possiamo definirlo, è il bisogno che i Cibuntu hanno di farsi conoscere e di essere riconosciuti come popolazione autonoma. Inoltre, come ente regolatore, troviamo anche la forte resistenza che c’è verso il flusso esterno, dettato dall’istinto umano di travolgere e sopraffare il prossimo con la propria cultura.
Non serve un’etichetta che li definisca diversamente da quanto siamo abituati a vedere e vivere noi, e non serve una spinta verso un mondo più funzionale, poiché nella loro prospettiva, non c’è nulla da cambiare: il loro mondo è pratico esattamente quanto il nostro, solo che è organizzato diversamente. Ma quando c’è identità, cosa rende meno “uomini”? Il loro progresso è nel cuore della tribù, nel forte culto di loro stessi. Sono aperti e disponibili ad accogliere chiunque voglia visitarli, purché promettano di fare tesoro di certe esperienze. Non desiderano essere studiati, ma essere appresi, capiti. “L’esibizione della povertà”, ovvero la messa in scena della tenera quotidianità Cibuntu, ha l’unico scopo di cambiare la percezione che l’uomo ha della loro arretratezza, traslandolo in un teatro diverso, ma adeguato e affascinante.
Per quanto si spieghi il desiderio e la curiosità verso certe realtà, su di loro non c’è nulla da sapere, nulla da studiare. Storicamente, non c’è una genealogia se non la convinzione di essere antenati di loro stessi. I Cibuntu, viaggiano sulla linea temporale del “non si sa”, dove ogni giorno è in scena la meraviglia della loro autenticità. La loro conoscenza non può essere estrapolata dai libri o da un’abile ricerca su internet, ma dal luogo stesso. Non possiamo costruire il loro passato, ma il nostro presente sì, e forse, anche il nostro futuro. Come? L’abilità di osservazione potrebbe tornarci utile: immagazzinando parole, idee e sensazioni. Tra i tanti dubbi, una certezza: la scoperta di una libertà primitiva.
Lisa Scartozzi