Antetokounmpo e la lunga strada da Milwaukee a Napoli: storie incredibili di uomini e di basket
Giannis Antetokounmpo, tra le lacrime e un vestito che non avrebbe mai sognato di indossare, diventa MVP; nell’acronimo di tre parole si nasconde la storia di un concetto e di un suo sogno: Most Valuable Player.
Nonostante il termine sia stato coniato come riferimento al miglior soggetto partecipante in tanti settori dello sport, parliamo della storia della palla a spicchi, di sogni che vanno a canestro, di vicende umane tribolate ed emozionanti che uniscono il mondo lungo l’asse che ci porta da Milwaukee fino a Napoli.
Siamo stati abituati spesso a cronache drammatiche e avvincenti che hanno condito la narrativa dello sport, diventando ponte di quel connubio umano capace di scindere dal gesto atletico o dal dato statistico. Tante storie, che nella consuetudine all’italiana forse sono troppo spesso legate al calcio e ai niños liberati dalle catene delle rispettive favelas. Anche il basket ha però saputo raccontarci di players borderline, di luoghi ostici e storie maledette convertite in sogni.
Qualcuno non avrà forse dimenticato Dennis Rodman, stella dei Chicago Bulls, che da timido e introverso venne un giorno ritrovato in un parcheggio, mentre imbracciava un fucile, intento, simbolicamente per fortuna, a uccidere il vecchio se stesso nella metamorfosi che lo porterà a diventare un bad boy.
La toccante storia di Jimmy Butler potrebbe essere un ulteriore esempio. Rimasto orfano all’età di tredici anni comincia a vagare da senzatetto nella sua città fino a diventare una stella della NBA. C’è anche il caso di Ryan Anderson, che dopo un lungo lavoro di supporto psicologico per la morte della sua fidanzata suicida, riesce a trovare espressione al suo nuovo essere affermandosi nella lega con i New Orleans Pelicans.
Ma la storia, forse tra le più autentiche e toccanti, ha a che fare con la stretta attualità, perché a conseguire quel fantomatico titolo MVP nell’ultima premiazione è stato, come detto, Giannis Antetokounmpo. Nome quasi impronunciabile, Giannis da Sepolia proviene dal quartiere di Atene tra i più difficili e pesantemente xenofobi; fattori ostili per chi ha una storia che nasce da più lontano.
La famiglia Adetokumbo (nome originario) parte dalla Nigeria, un paese lacerato dalla violenza di continui ribaltamenti governativi e regimi dittatoriali, affrontando così il viaggio da Lagos per giungere fino in Grecia dopo la caduta dell’Unione Sovietica e l’apertura dei confini. Gli inizi sono decisamente difficili per la famiglia di ambulanti senza la cittadinanza riconosciuta e con un destino da porgere in maniera reverenziale allo Stato, mutando il cognome in Antetokounmpo (fonicamente più congeniale alla lingua greca) e consegnando alla dinastia di cinque figli nomi locali per renderli forse trasparenti e accettati: Thanatis, Kostas, Francis, Alexis e Giannis appunto.
Giannis cresce da naufrago su terra ferma, da apolide senza cittadinanza greca e neanche nigeriana, munito soltanto del dono prezioso di un paio di scarpe da basket da spartirsi con il fratello Thanatis. A notare prima di tutti Thanatis e Giannis è il coach Spiros Velliniatis, allenatore del Filathlitikos, club di Serie A2 greca.
Per Giannis tutto comincia con una breve esperienza in Spagna prima di quel cammino da predestinato che lo porta in NBA come quindicesima scelta al Draft per i Bucks di Milwaukee. Cinque anni più tardi ottiene il più alto titolo individuale per un giocatore di basket (solo un altro, Steve Nash, era riuscito in una simile impresa, quindicesima scelta e poi MVP ma mettendoci molti più anni).
Giannis diventa il supereroe degli invisibili e degli outsider, di coloro che viaggiano alla deriva senza il diritto riconosciuto di appartenere territorialmente, di coloro che non crescono sotto i riflettori da adolescenti predestinati ma che interagiscono in modo giocoso con i social senza ostentazioni di personaggi costruiti o profili di chi è destinato a diventare re del popolo.
È questo l’asse di una storia contemporanea, di un passaggio di palla che giunge fino a Napoli nel rinato progetto del presidente Grassi, dei suoi soci e di una franchigia finalmente ritornata in A2 e che alla vigilia della prossima stagione ingaggia, tra gli altri, Terrence Roderick. Esterno di Filadelfia, quasi due metri di altezza, dopo una brillante adolescenza nei campionati scolastici americani e l’occhio dei migliori college su di lui la sua carriera e vita vengono stravolte. È costretto a poco più di vent’anni a frenare i sogni della pallacanestro per dedicarsi a una nuova vita da giovane padre, una famiglia, una meravigliosa piccola bimba e i sogni stipati in un cassetto, costretto a una più umile manovalanza da operaio.
A riscoprirlo è un certo Manuel Capicchioni che lo porta in una squadra austriaca e da lì riparte una lunga carriera tra piazze cestistiche importanti come Rimini, Cremona, Forlì, Bergamo, l’avventura in Israele fino a Napoli dove abbraccerà il calore di un popolo che storicamente dispone i propri sogni, fatti di romanticismo e di rivalsa, nei colori dello sport.
Claudio Palumbo