Tutti i muri sono destinati a crollare: “The Wall” quaranta anni dopo
Che lo vogliamo o no, The Wall rappresenta al meglio l’intera esistenza di ognuno di noi e, dopo quattro decenni dall’uscita del concept album, la storia si ripete per ognuno di noi. Eventi su eventi che possono portarci su due strade: la fortificazione di noi stessi o la costruzione di quel famoso muro per paura di interfacciarci con l’esterno.
A.D. 1979, i Pink Floyd sono sulla cresta dell’onda, ma “successo” non è sempre sinonimo di “felicità”.
Nel luglio del 1977, allo Stadio Olimpico di Montréal, degli spettatori irritarono Waters al tal punto che quest’ultimo sputò su di loro.
Sarà proprio il gesto dello sputo che costruirà una base solida per il rapporto Waters – fans, quindi per la stesura e scrittura dell’album.
Roger Waters odiava suonare davanti un pubblico talmente vasto e sentiva una barriera tra lui ed i fan e, dopo aver parlato dei suoi problemi con uno psichiatra, decise di incidere il materiale per il nuovo album: The Wall, appunto.
Questo distacco venne avvertito durante i live poiché le masse di giovani fan non erano lì tanto per lo spettacolo in sé, ma per drogarsi, bere e divertirsi senza concentrarsi sullo show.
Manson e Gilmour – rispettivamente batterista e chitarrista della band – cercarono d’avere i piedi di piombo su questa nuova creazione del bassista, ma quando una brutta situazione finanziaria colpì il loro portafoglio, si buttarono a capofitto senza pensarci due volte.
Ma la domanda principale è: perché The Wall ci rispecchia ancora? Soprattutto cos’è il The Wall?
Alla prima domanda troviamo risposta in questa maniera: l’album ci rispecchia perché parla di noi, parla delle nostre ansie, insicurezze e paranoie.
Ci parla di come siamo bravi a toccare il fondo dopo che i traumi della vita ci hanno umiliato isolandoci in noi stessi.
L’album parla di come Pink – creatura mitologica metà Syd Barrett e metà Roger Waters – sia caduto nel baratro della follia segnato dalla morte del padre durante la Seconda guerra mondiale, dall’iperprotettività della madre e dalla diseducante educazione del sistema scolastico britannico.
Tutti questi traumi lo portano a costruire questo muro che si chiuderà definitivamente dopo la rottura con la moglie per via dei loro caratteri inconciliabili.
Ha trasformato la sua passione in lavoro, ma i produttori non sono interessati a Pink-persona senziente, ma a Pink-prodotto arrivando a drogarlo pur di farlo salire sul palco (Comfortably Numb).
Nella canzone The Happiest Days of Our Lives viene aspramente criticato il sistema scolastico britannico; un sistema rigido e militaresco contornato da punizioni corporali che fecero parte di un sistema educativo fino al 1987.
Allora decide di far la cosa migliore: analizzare se stesso e tutto il processo viene descritto nella canzone The Trial dove viene descritto un immaginario processo che vede come giudici la madre, il maestro e la moglie del protagonista, ovvero le tre principali fonti di traumi del protagonista.
La “corte” lo condanna a distruggere questo muro ed a rimettere piede nel mondo esterno, quello composto da pericoli dietro ogni angolo, ma solo così si può continuare a vivere e ad andare avanti.
La morte del padre del protagonista è ispirata alla morte del padre di Roger Waters, morto durante la battaglia di Anzio del 1944 ed è descritta nella canzone Vera e Bring The Boys Back Home.
Il muro, invece, rappresenta la barriera da abbattere. Waters immagina un mondo solidale, tutti fratelli senza distinzione di classe.
L’opera non sono cambia la storia della musica inserendo l’album all’87° posto tra i migliori 500 della storia ma anche il modo di essere di Waters: un essere egocentrico che si trasforma in un menestrello di pace e gioia.
L’intero album si chiude con la ballata Outside the Wall. Waters non fa altro che ricordarci che non possiamo chiuderci in un muro. E qui il tocco di genio: il brano termina con una frase a metà “Isn’t this where…” che si ricollega con la frase iniziale “we came in?” della prima canzone “In The Flash“, ovvero “Non è da qui che siamo entrati”.
Bisogna sempre star attenti a non chiudersi dentro altre mura poiché, distrutta una barriera, non si diventa automaticamente immuni alle future che incontreremo sul nostro percorso.
Ogni muro ha una propria consistenza; l’involucro è identico portando però a diverse forme di dipendenza e sofferenza.
Questo circolo vizioso si può abbattere soltanto affrontando il nostro male interiore, parlando con gli altri e, soprattutto, di non aver paura del mondo esterno.
Se molti lo affrontano, perché non possiamo farcela anche noi?
Antonio Vollono