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La grandezza delle Piccole Donne: centocinquant’anni e non sentirli

Sono passati oltre centocinquant’anni dalla prima pubblicazione del romanzo di Louisa May Alcott Piccole donne, ventisei dall’iconica trasposizione cinematografica – l’ultima di una lunga serie – con protagonista la grintosa Winona Ryder, a malapena tre dalla messa in onda del fedelissimo tv drama targato BBC, e quasi verrebbe da chiedersi “C’era davvero bisogno dell’ennesima versione di questo romanzo?”.

La risposta è ovviamente sì, ce n’era proprio bisogno. La versione scritta e diretta da Greta Gerwig porta con sé tutto l’amore che la regista e sceneggiatrice prova nei confronti di questo classico americano, preservandone per rispetto le pagine e i personaggi, ma dando una lettura fresca e attuale alla storia, che risulta allo spettatore potente e d’ispirazione.

D’altronde è questa la grandezza dei classici ben scritti, a distanza di secoli puoi comunque ritrovarne il tuo presente tra le righe e un pezzetto di te stesso nei protagonisti delle vicende. E in questo Piccole donne del Ventunesimo Secolo ce n’è per tutti, non soltanto per le ragazze che vogliono farsi strada nel mondo, armate di sogni e grinta, o per le donne che un tempo si sono perse nei romantici paesaggi di Concord, Massachussets, sognando che il passionale Laurie o il posato professor Bhaer giurasse loro amore eterno.

Ce n’è per gli uomini che sono stati innamorati e poi rifiutati, per quelli che hanno conosciuto la solitudine ma anche la bellezza delle amicizie sincere; ce n’è per i nonni, i padri e i fratelli che hanno dovuto imparare a convivere col vivace chiacchiericcio tutto al femminile per poi non riuscire più a farne a meno.

I nuovi temi che permeano il film – temi fin dall’inizio presenti nel romanzo ma in qualche modo trascurati dalle precedenti trasposizioni – sono i soldi e l’indipendenza economica, due argomenti sempre attuali e a noi vicini, anche se per fortuna in maniera un po’ diversa dall’epoca in cui è stata scritta e ambientata la storia delle sorelle March, epoca in cui alle donne nubili veniva data assai poca scelta. Non più solo i sogni e le passioni, allora, e soprattutto non più solo l’amore.

Greta Gerwig sfida il cliché, purtroppo ancora molto attuale, secondo cui il senso della vita di una donna sia legato al partner e ai figli, affidando un intenso monologo all’eroina indiscussa del romanzo, Jo – interpretata da una sempre eccezionale Saoirse Ronan – e facendo della pubblicazione del suo romanzo, e non del matrimonio, il coronamento del suo lieto fine; ma la regista sfida anche le femministe radicali, che mettono la carriera e il monopolio del potere prima di tutto il resto, criticando chi della realizzazione di un nucleo famigliare ha fatto invece il suo obiettivo primario.

“Solo perché i miei sogni sono diversi dai tuoi, non significa che siano meno importanti­” dice la sorella maggiore Meg all’anticonformista Jo, quando quest’ultima si dimostra contraria alla sua decisione di sposarsi e mettere su famiglia.

È tutta qui la chiave del femminismo autentico, quello di cui Greta Gerwig si fa portavoce con il suo film. Le donne devono essere uguali agli uomini nella loro libertà di scelta, non rubarne il posto nel mondo o la supremazia dei diritti. Nella scalata alla felicità può esserci posto per tutti, se solo ci si ricorda di essere fedeli e leali a se stessi, senza sacrificare gli affetti in nome dell’apparenza e dell’avidità. Una lezione che le piccole donne March e gli uomini a esse legati hanno imparato bene e che, in centocinquant’anni, non è passata di moda.

Claudia Moschetti

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La Redazione

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