Se il Vesuvio parlasse : “Napucalisse” di Mimmo Borrelli
La Sala Assoli di Napoli è un teatro piccolissimo, c’entrano pochissime persone e sono vicinissime, attaccate l’una all’altra, lo spazio d’esibizione a due passi dalla prima fila, tutto confluisce e tutto partecipa alla creazione della performance. Mimmo Borrelli lo sa e comincia la sua “Napucalisse” rivolgendosi direttamente al suo pubblico, chiamato immediatamente in causa, sollecitato all’attenzione.
E sì, perché capire la scrittura di Mimmo Borrelli non è mica facile, e allora lui, comunicatore massimo e incontenibile, parla ai suoi spettatori evitando i filtri, spiegando loro cosa stanno per vedere, ma, soprattutto, cosa stanno andando ad ascoltare. Come una favola della buonanotte, il testo viene dipanato in un racconto facile, scorrevole, dolce.
Facilitare il compito al fruitore d’arte è un’azione che ho sempre trovato nobile, caritatevole. Certo, lasciare il compito a chi guarda di capire, analizzare, lasciarsi trascinare dalle proprie impressioni, dalla propria mente, è affascinante. Ma lo è anche spiegarsi, lasciare che il pubblico prenda in considerazione una doppia opzione: la propria personale e quella dell’artista, l’intento dietro la creazione. La trama, in questo caso, è semplice, ma al contempo geniale. Onestamente, il primo pensiero che ho formulato è stato :“che figata”.
Non molto professionale, da parte mia, lo so.
Però che bello, poter partorire una cosa così definita, così chiara, da subito. Quando l’idea ha valore, non deve attendere troppo per colpire, arrivare, dire ciò che deve. Se il Vesuvio fosse Lucifero, un angelo buono ma troppo bello, esiliato e costretto ad ancorare la sua coda nelle profondità del Mar Tirreno, a vegliare su una città che cresce, disordinatamente, caoticamente, apparentemente dannata, contraddittoria; se il Vesuvio fosse un angelo caduto trasformatosi in vulcano, un vulcano a guardia dell’umanità napoletana tutta, capace di risvegliarsi per distruggerla, quando necessario, quando il “bordello” è troppo, quando è opportuno bruciare tutto per concimare il terreno con nuova potenzialità di vita? Da questa fantasia nasce il dialogo ( Borrelli in scena interpreta tutti i personaggi della vicenda) tra il Vesuvio/Lucifero, un vecchio Pulcinella che – nelle parole dello stesso Borrelli – non è più in grado di far ridere la propria città ma al contempo non vuole vederla bruciare e altri personaggi (dei bambini in gita sul Vesuvio, un killer che vuol vedere la città soccombere) . Napoli deve bruciare o no? Chi deve salvarsi? C’è speranza? Queste domande enormi, gigantesche, sono monologate, cantate, rappate, concitate, confuse, disperate, volgari, poetiche, ritmiche, tormentate, irrisolvibili, arrabbiate, gioiose. L’energia di Borrelli non si esaurisce nel suo essere recitante, parlante, ma in tutto il suo corpo che performa e si mette al servizio della musica, del ritmo, della parola. L’opera è accompagnata dai suoni dal vivo di Antonio Della Ragione, perfettamente in grado di cadenzare e accompagnare l’intera perfomance, con tutti i relativi cambi di registro, di voci, di posture. Mimmo Borrelli in scena è angelo e bestia, bellissimo e violento, nudo e camaleontico, un coacervo di anime diverse nello stesso organismo vivente. “Napucalisse” – come tutte le altre opere borrelliane – è un’esperienza sensoriale, emozionale ed intellettuale. Un’esperienza forte, sia carezza che ceffone, con un canto finale di – forse irragionevole – speranza.
Ma noi, napoletani, siamo messi faccia a faccia con la domanda più assoluta, più terribile: dovremmo bruciare? Siamo Pulcinella o L’Assassino? Capiamo il Vesuvio o vogliamo solo sopravvivere nel nostro eterno, atavico caos?
Sto ancora pensando alla mia, di risposta.
Sveva Di Palma