La star del Roxy Bar spegne 68 candeline: buon compleanno Kom!
Era il 7 febbraio 1952 quando Giovanni Carlo Rossi, detto “Carlino”, decide di dare alla nuova leva di casa il nome di Vasco. Siamo a Zocca, una tranquilla località sull’Appennino tra Modena e Bologna. Per il resto, non c’è bisogno di presentazioni.
Vasco, che frequenta la facoltà di Economica e Commercio cambiando poi corso di laurea per passare a Pedagogia, a solo 8 esami abbandona la carriera universitaria. Quello stesso Vasco che nel 1974 fonda Punta Radio, la prima radio libera dopo la fine del monopolio Rai, deve tutto alla sua carriera da DJ. Cominciando a suonare in alcuni locali di Bologna e incoraggiato da alcuni suoi amici, in particolare Gaetano Curreri, si convince a incidere il suo primo 45 giri dal titolo …Ma cosa vuoi che sia una canzone… con cui anticipa quelli che poi sarebbero stati i temi di un’intera discografia. Vasco canta di donne, d’amore e d’instabilità emozionale e temporale e lo fa in modo chiaro e diretto. In un momento storico in cui tutti aggiungono parole, lui descrive emozioni con la semplicità e la naturalezza di uno che apre la porta di casa e si fionda sul divano.
Ma c’è un album in particolare che segna l’inizio della sua pluriennale carriera, parliamo di Non siamo mica gli americani.
“Più vado avanti e più sento il bisogno di scrivere canzoni. Però adesso non mi interessa più dimostrare agli altri che anch’io so rivestire alcuni versi con qualche accordo. Ho voglia di comunicare sensazioni, credo di avere un discorso mio da portare avanti. Perciò chiedo solo che la gente mi ascolti, magari una sola volta, per far sì che ognuno possa decidere autonomamente se il mio è un discorso che lo interessa o no”:
racconta in un’intervista per Ciao 2001 nel settembre del 1979. Un album in cui Vasco comincia a farsi diretto, duro, onesto, ma soprattutto un album che conserva con cura il brano che segnerà la storia della musica italiana, Albachiara.
Albachiara nasce da una melodia composta da Massimo Riva, collega e grande amico del Blasco, su cui scrive di getto il testo per dedicarlo poi a Giovanna, una ragazzina di tredici anni che ogni giorno passava fuori casa sua per prendere l’autobus.
“Guarda che l’ho scritta per te Albachiara!” sono le parole che almeno una volta noi vascodipendenti avremmo voluto ci dicessero.
Ma purtroppo, o per fortuna, a noi non resta che cantarla a squarciagola alla fine di ogni concerto, quasi come un rito che ci avvisa dall’altoparlante che siamo arrivati al capolinea e la magia è finita.
Ma solo per quel momento.
Essere accompagnati dalle canzoni di Vasco è qualcosa di unico, è come se per ogni tappa della tua vita ce ne fosse una pronta, lì, fatta su misura che esce dall’armadio e dice «Oggi ti servo, sono qua apposta!». E per quanto tu possa essere il più grande intellettuale della Crusca, dentro di te accadono cose inconfessabili, cose identiche a quelle che accadono al ragazzo che di fianco a te piange sotto le note di Ogni volta.
Io non lo ascolto Vasco, io lo capisco.
Capisco cosa vuol dire, per una cresciuta in provincia in un paese di 40.000 abitanti, sentirsi sempre giudicati indipendentemente da quello che si fa e da quello che si è. Capisco cosa vuol dire combattere per un paese che non ti piace, che non ti stimola e che ti paragona agli altri 39.999. E quando la gente mi chiede «Allora, che mi racconti?», mi risuonano nella testa sempre le stesse parole:
Cosa succede
Cosa succede in città?
C’è confusione sì
Ma in fondo è sempre quella
Siamo noi, siamo noi
Quelli più stanchi
Siamo noi, siamo noi
Che dovremo andare avanti
Vasco sa bene cosa significa vivere sotto il pregiudizio dei malpensanti:
“Ho vissuto sulla mia pelle la sensazione di venire escluso e ne ho sofferto moltissimo. Ero un montanaro, venivo da Zocca… Mi dicevano che ero un drogato. Non lo sono mai stato. Mi definisco un tossico indipendente. Le sostanze le ho provate tutte, perché volevo farlo”.
Vasco lo sa.
Te lo legge negli occhi e te lo spiega come si fa a sopravvivere agli spari sopra. Crudo e violento è la voce di chi non ha voce. È la voce di chi non ha la forza di urlare e allora lo fa con una canzone.
68 anni e più di 40 di carriera.
Una vita spericolata senza mai togliere il piede dall’acceleratore.
E quando mi dite “Ma tanto puoi vederlo in tv!”, voi vascodipendenti come glielo spiegate a questi qua?
Per noi generazione di sconvolti:
vivere o niente.
Buon compleanno Kom!
Serena Palmese