Il ratto delle Sabine: storia di ordinaria politica
“Mogli e buoi dei paesi tuoi”
dice il proverbio.
Eppure non ci sarebbe stata alcuna Roma (né tutta la storia dell’Occidente), se il suo fondatore Romolo avesse fatto come consiglia il detto.
Perché anche la fiamma della città più promettente, destinata a essere capitale di un Impero leggendario, può esaurirsi prima del tempo se nessuno ne ravviva le braci.
Ed è per questo che Roma, la Città Eterna eternamente governata da uomini, deve – se non la sua nascita – la sua crescita alle donne, e nello specifico alle donne Sabine, che nell’inganno e nella violenza hanno reso grande servizio ai Romani facendo loro da mogli e da madri.
Correva l’anno 749 a.C. Numerose famiglie appartenenti alle comunità limitrofe giunsero a Roma, neonata città, per festeggiare il ritrovamento di un altare misterioso, recante tracce di antichi sacrifici rituali. Nessuno di loro sospettava che la festa fosse in realtà un espediente politico per tendergli un agguato.
Gli invitati bevevano e danzavano ignari, e con essi i Sabini, antico e nobile popolo stanziato tra l’Appennino marchigiano e la valle dell’alto Tevere. Le loro bellissime figlie, avvolte in tuniche di un virgineo candore, attirarono subito l’attenzione dei Romani e del loro re.
La città fondata da Romolo sul colle Palatino era, infatti, una città di uomini: giovani pastori fuggiti dai villaggi vicini, criminali messi al bando dal loro stesso popolo e schiavi fuggiti dai padroni. Scarseggiavano, dunque, le donne e quelle che c’erano godevano di una brutta reputazione.
Consapevole della necessità di concepire eredi per garantire un futuro ai sudditi e all’Urbe da poco fondata, Romolo aveva cercato di stringere alleanze con le popolazioni confinanti per stringere accordi matrimoniali, ma senza alcuna riuscita, forse per colpa della brutta fama che si accompagnava ai Romani, troppo rozzi e violenti per essere considerati dei buoni partiti. E particolarmente contrariati si erano dimostrati i Sabini, comunità istruita che aveva per le proprie donne un grande riguardo.
Ciò che non ottennero con le buone maniere, i Romani vollero perciò prenderlo con la forza, violando le sacre leggi dell’ospitalità, sguainando spade e coltelli verso i Sabini proprio durante i festeggiamenti, prendendo le loro giovani donne nello stupore e timore generale.
Secondo gli ordini del re, nessuna donna sposata doveva essere toccata e, stando al resoconto di Tito Livio, le fanciulle rapite andavano comunque trattate con rispetto, poiché sarebbero entrate a tutti gli effetti nella società romana tramite il matrimonio.
Il piano di Romolo funzionò alla perfezione. Il numero di vergini rapite fu molto alto e ai loro padri, sopraffatti dall’impeto dei Romani, venne concesso di fuggire insieme ai restanti membri della famiglia. Nella confusione complessiva venne, però, commesso un errore: una Sabina già sposata venne rapita insieme alle giovani vergini. Assumendosi le responsabilità dell’accaduto, Romolo prese in moglie la donna, chiamata Ersilia, che gli diede poi due figli.
L’azione venne comunque considerata un successo, benché i Romani si ritrovassero ora geograficamente circondati da nemici, che non tardarono a dichiarare guerra ai rapitori delle loro adorate figlie.
E furono proprio le donne, guidate da Ersilia in persona, a portare la pace tra i due schieramenti, essendo contemporaneamente figlie di uno e mogli dell’altro. Innamorate dei loro rapitori, molte già incinte dei loro bambini, trovavano insopportabile scegliere tra il diventare orfane e l’essere vedove e decisero di frapporsi fisicamente tra i due eserciti per fermarli. I pianti e le grida delle Sabine scaldarono i cuori dei contendenti, che finalmente videro la pace e la fusione delle comunità come unica scelta possibile.
Claudia Moschetti
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