JAGO: le prossime storie le scolpiamo noi
Non esiste un modo semplice per raccontare una storia.
Diciamocelo, certe volte le parole sembrano dei contenitori vuoti in cui devi inserire qualcosa che TU STESSO decidi.
E allora le certezze dove sono?
Se nemmeno pizza, domani, potrebbe non significare più quello che conosciamo, allora dove sono le certezze?
“Mi sono sempre sentito circondato da un tipo di bellezza che andava a definire, che era speciale, che mi dava un senso, che mi stimolava, nella quale mi riconoscevo, rispetto alla quale sentivo il bisogno anche di emulare, di riprodurla, di farla mia, copiarla, interiorizzarla e restituirla a modo mio attraverso la mia creatività.
Mi capitava di vedere delle cose magnifiche che poi io volevo rifare, che volevo, pensavo che avrei voluto fare io quella cosa lì e, magari, mi immaginavo come poteva, come può essere questo senso di identificazione così che può avere un bambino”.
Se riempire parole come pizza o cartongesso può divenire tanto complesso, allora come definiamo l’arte?
Già.
Quella cosa che abbiamo tutti visto una volta nella vita, ma che se proviamo lontanamente a riempire, ci sconquassa.
“Il processo per arrivare all’opera è quello di un’idea, di un’immagine e di una necessità.
Quindi di base c’è il fatto che voglio esprimermi attraverso la scultura: il marmo come ambizione personale, l’esprimermi attraverso le forme, dare la forma ad un mio pensiero.
C’è la necessità, e ridico ancora necessità, personale di vederla.
Il mio pensiero ha bisogno di essere trasformato, di diventare un oggetto che occupa uno spazio fisico”.
Oggi è un giorno di settembre dell’anno 2020.
Fa ancora caldo, ma mentre le giornate iniziano il lento processo per ridursi in cenere, noi siamo qui, seduti su un divano verde chiaro e ci ascoltiamo a vicenda.
Davanti a me c’è Jacopo, forse lo conosciamo tutti meglio col nome di JAGO.
Mentre ascolto, mi rendo conto che sto vivendo dei momenti unici e che questa storia la devo raccontare con la stessa dovizia che il tempo dedica all’arte.
“Io evito di usare la parola arte.
Oggi chiunque può attaccarsi sul petto la scritta Io sono un artista, fa figo.
Posso parlare di creatività.
Di capacità di condividere, di comunicare un pensiero, no? E quindi in realtà se sei creativo, puoi applicare la tua creatività ovunque. Il creativo è colui che esprime al massimo la professione e riesce a comunicare, a dire cose nuove facendo ciò che sa fare meglio, che ha imparato a fare meglio.
Io applico la mia creatività a questo”.
Forse non dovremmo usare così tanto il contenitore arte, questa parola tanto calda che può unire i popoli.
“Non ho memoria di quando ho fatto una cosa che posso considerare opera d’arte, ho iniziato come spettatore. A parte che non ce l’ho neppure oggi questa preoccupazione, ho sicuramente visto delle cose bellissime che mi hanno emozionato e che io ho reputato opere d’arte, ma questo è successo già quando ero molto piccolo.
Andavo alla ricerca delle cose speciali attorno a me.
Poi, i miei genitori non mi hanno mai costretto a fare una determinata cosa, mi hanno parlato di tante cose, ma sono rimasto libero di scegliere e credo lo abbiano fatto perché avevano riconosciuto in me una predisposizione, un talento, una capacità che era difficile imbrigliare, imprigionare, chiudere, costringere. E allora semplicemente hanno assecondato, nonostante le grandi difficoltà che hanno accompagnato il mio, il nostro percorso cambiare per lungo tempo”.
Quando scolpisci ti senti libero, quindi?
“Quando scolpisco è una necessità che è legata al fatto della creazione. Fa arte chi questa esperienza la fa ogni giorno e quindi puoi immaginare in che stato di benessere e di lusso ti trovi.
Ecco perché quando poi ti invitano ad andare in vacanza a te non te ne frega niente.
Vai in una condizione che in realtà non ti dà quello stesso piacere che ti puoi autogenerare, non te ne frega niente. Poi magari partecipi, ti diverti, riesci a godere, ad essere creativo anche in quei luoghi però la creatività è sempre più come una droga. Si trova alla base della tua stessa sopravvivenza, è parte integrante di te, quando apri quella porta non si chiude più.
Se il genere umano domani dovesse estinguersi, comunque l’arte emergerebbe.
Il problema è che siamo noi che dobbiamo dire lì c’è arte, lì non c’è arte.
È una cosa molto limitante, per me conta molto più la bellezza che l’arte. Invece il concetto di bellezza può essere molto più indagato.
Temo che la parola arte sia stata abusata per secoli, come la parola amore o dio.
Le usi, ma dall’altra parte le persone pensano le loro cose, immaginano il loro dio, immaginano la loro bellezza stretta nei propri canoni”.
Quando mi sono alzata da quel divano, mi sono resa conto di una cosa: JAGO mi stava mostrando le sue opere, lì, live, levava le protezioni all’Habemus Hominem, mi raccontava le linee de La Pietà e insieme stavamo percorrendo un cammino semplice in un percorso pieno di buche.
Mi sono domandata, allora, se non fosse effettivamente quella arte, anzi, Arte.
Il momento unico vissuto nella cornice giusta, con la bellezza in gola e le mani di un ragazzo che ieri non avresti pensato di toccare. Le stesse mani che hanno creato, gli stessi occhi che hanno scolpito.
Se le parole sono contenitori, oggi, un giorno di settembre 2020, sono diventata un vaso anch’io, completamente in balìa della ricerca.
“Mi innamoro di tante cose, in continuazione, mi innamoro di cose nuove. Metto anche in conto il fatto che per dire che una cosa è bella devi avere un termine di paragone, quindi a volte il brutto partecipa, no?
Per scolpire, io devo rompere, per costruire, per avere quella forma positiva, per trasformare, io distruggo qualcosa.
Questo è un equilibrio naturale, parliamo di equilibrio, poi mi vogliono far credere che invece bisogna rompere per forza, rompere in ogni caso. Anche io distruggo, ma con equilibrio: non distruggo se non per comunicare una trasformazione a chi, poi, magari mi contatta e dice -Io non capisco nulla di arte, ma il tuo lavoro mi piace-.
Non si deve capire di arte per sentire la bellezza, per comunicare e recepire.
Io voglio solo mettere al mondo nuova bellezza”.
Quindi, non esiste un modo semplice per raccontare una storia.
Le storie sono bandoli di matasse da tirare sperando di giungere al punto.
Una storia, però, l’abbiamo, appena raccontata ed è quella di un paio di occhi che distruggono con amore il marmo e poi, senza, fiatare, lo ricompongono perché la bellezza sia destinata a noi, a voi e a chi racconterà le prossime storie.
Benedetta De Nicola
In copertina la foto di Giovanni Allocca
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