Architetture criminali di Adelaide Di Nunzio: immagini e parole della bellezza e della negligenza
Mi sono imbattuta nell’esistenza di Adelaide per puro caso, come spesso accade per la bellezza, un incidente che subisci senza preavviso, talvolta senza consapevolezza.
Ho trovato una copia del suo libro fotografico Architetture criminali tra gli scaffali della casa di una persona a me cara; era ancora imballato, avvolto nel suo cellophane, un acquisto recente e prezioso che aspettava il momento adatto per essere scartato.
La persona a me cara ha cura e delicatezza per ciò che ha cercato e atteso, conosce i tempi giusti per le cose importanti, mentre io sono sempre stata così, selvaggia, immediata ed irrefrenabile.
Prima che lo realizzassi, il cellophane attorno ad Architetture criminali giaceva a terra ed il libro, aperto, nelle mie mani, sotto il mio sguardo famelico.
Non mi aspettavo niente, ero solo curiosa di quel titolo e di quella fotografia in copertina: un rudere d’oro, mattoni abbandonati, geometrie.
Certo, non mi aspettavo niente ma qualche idea me l’ero fatta: un libro di fotografia, una ricerca attraverso le architetture.
Non mi aspettavo, però, di trovarmi a leggere prima di guardare, di dover aspettare prima di poter accedere alla fotografia, al cuore.
Ed invece l’opera fotografica di Adelaide Di Nunzio è un viaggio, come da lei stessa definita in una breve ma intensa telefonata Italia-Germania avuta poco fa.
Il viaggio ha in sé e con sé le immagini, ma anche le parole.
L’artista napoletana (bisogna chiarirlo, per comprendere in pieno il suo operato, credo) raccoglie, sceglie, compone il suo mosaico, mettendo insieme il lavoro di anni, di diversi mondi scattati e conservati, inconsapevoli in passato di essere tasselli di un’opera più grande.
Dodici anni.
Dodici anni di lavoro duro e preciso, di studio, osservazione ed immedesimazione sono confluiti in una nascita, la nascita di un Sud Italia esposto nelle sue fragilità, nelle sue ferite, nelle sue malattie.
Le architetture abbandonate, incompiute, gli abusi edilizi – veri e propri ecomostri – sono corpi viventi abbozzati, corpi ai quali era stata promessa una vita, che si erano fidati ed invece si ergono lì, traditi, soli, decadenti. Decadenti eppur vivi, come i popoli del Sud, della Calabria, della Puglia, della Sicilia e della Campania, di tutte le terre toccate dallo sguardo abile e sottile di Adelaide, dal suo reportage poetico, dalla sua operazione di info-narrazione. Le terre delle mafie – della negligenza, della criminalità selvaggia e poi nascosta, di bellezze eguagliate solo dalle bruttezze – sono protagoniste dell’osservazione partecipante di una fotografa che è voce narrante, antropologa, etnografa, giornalista, scrittrice.
Quando Adelaide ci introduce il contesto socio-economico, socio-politico e antropologico dietro i suoi scatti è una cantastorie; leggendo e osservando ci sembra di sentire la sua voce, di guardare attraverso e nei suoi occhi il circostante, l’esterno. Esterno che è anche interno quando i paesaggi e gli edifici si congiungono ai corpi, alle bocche, ai seni, alle mani di esseri umani traditi, soli, uomini come ruderi, scartati, non scelti. Non scelti se non dall’obiettivo di Adelaide, che dona loro la visibilità, l’esistenza.
Esistiamo se siamo solo con noi stessi? Non è forse la presa di coscienza della nostra presenza da parte dell’altro che ci fa esistere pienamente?
I corpi segnati e duri, mostrati nella loro poetica poliedricità e polivalenza, brutti e bellissimi, distrutti e maestosi, sono il museo della vita che questa artista ci offre, la visita in cui ci guida, spiegandoci cosa vediamo ma invitandoci a riflettere, a rinviare il giudizio, ad assorbire.
Non vi dirò cosa vedrete, o cosa leggerete, perché i misteri vanno pregustati quando sono ancora tali, avvolti in un manto di chiaroscuro che lascia alla pupilla solo dei frammenti, degli inviti, degli assaggi.
Buona visione e buona lettura!
Sveva Di Palma
Vedi anche: La ragazza delle meraviglie: nella scrittura di Lavinia Petti