Super Hits Per Cuori (non) Infranti: intervista a Spaghetti Casanova
Inizia a suonare blues nel lontano 2011 con una Yamaha minuscola, dopo aver visto Marty McFly eseguire Johnny B. Goode di Chuck Berry nel film Ritorno al futuro.
Oggi realizza il suo primo disco da solista.
Ha esordito due anni fa con l’album Barabba e Burattini, esibendosi con la sua band davanti al campanile di Santa Chiara e portando il rockabilly nel cuore di Spaccanapoli. È un cultore della musica italiana d’autore – soprattutto quella anni ‘60, come Tenco, Endrigo, Dalla e Battisti – ma ci fa volare subito oltreoceano cantando Ray Charles, Doors e Stray Cats, vestito di frange e cappelli da cowboy in perfetto stile country.
Si è perfino cimentato con il neomelodico di D’Alessio e quest’estate ha improvvisato un duetto alle Rocce Verdi con Franco Ricciardi. Il nuovo disco di Spaghetti Casanova (nome d’arte di Toto Traversa) è un motivetto che non esce dalla testa e saprà seguirti fin sotto la doccia. Conosciamolo meglio.
La tua ultima fatica è un omaggio ai capolavori del cinema italiano e francese. Racconti la fenomenologia dell’amore attraverso fotogrammi poetici, che richiamano le atmosfere nostalgiche della Nouvelle vague con i volti iconici di Sophie Marceau, Donatella Turri e Monica Bellucci. Come nasce Super Hits Per Cuori Infranti e quante cose sono cambiate dal tuo album d’esordio con I Barabba?
«Questa mia ultima creatura può definirsi una naturale evoluzione di Barabba e Burattini, con un tocco decisamente più personale, essendo un disco da solista. Se con I Barabba ho dovuto combinare le mie intuizioni con le idee di Riccardo e Antonio, qui il concept è interamente mio. Per il resto hai già detto tutto tu in modo super esaustivo – ride – ottima recensione!»
“Qua già ci si amava poco e adesso..” cosi reciti nella canzone scritta durante il primo lockdown, COVID 19, cantando la reclusione forzata dei sentimenti in una stagione dell’amore interrotta brutalmente dalla pandemia.
Oggi ci risiamo.
La nostalgia di un amore perduto è il fil rouge dell’album, che sembra raccontarci la distanza emotiva che ci è imposta in queste settimane. Quanto ti ha influenzato il momento storico che stiamo vivendo nella scrittura del nuovo disco?
«In realtà quasi tutti i pezzi sono stati scritti prima di questa tragedia che ci sta consumando. Alcune hanno addirittura visto la luce già due o tre anni fa nella versione originale chitarra e voce. Il nome dell’album nasce dalle mie relazioni passate e dal desiderio di raccontare i sentimenti con una vena ironica che allo stesso tempo esalta e dissacra l’amore, quindi non lasciatevi ingannare dal titolo!
Un’altra cosa: nelle tracce ci sono tantissime citazioni di brani, stili e band che hanno influenzato la mia sensibilità artistica, come la musica di Pino Daniele, Stray Cats, Morricone e dei film di Fellini. Consiglio di affinare bene l’orecchio e di scovarle tutte durante l’ascolto».
Con la tua band hai già partecipato ad un (finto) talent, il BeQuiet al Bellini – un format originalissimo ideato da Giovanni Block, in cui vengono denunciati i meccanismi spietati dello show business a favore di una visione meritocratica dell’arte. Tu pensi che possano essere un buon trampolino di lancio per talenti in erba o condividi l’idea della macchina mediatica come un tritacarne che snatura sensibilità naïve coma la tua?
«La mia idea di talent è estremamente negativa: superare le selezioni senza un’etichetta discografica alle spalle è davvero difficile e chi vi partecipa rischia paradossalmente di bruciarsi la carriera prima ancora di ingranare. In più, una volta dentro, si autorizza automaticamente il trattamento della propria immagine fin quando non si viene rimpiazzati dall’idolo di turno. La morte della musica, in breve».
Napoli da un po’ di anni è attraversata da un fermento musicale che è stato ribatezzato come “Newpolitan sound”, una new wave che contamina e rinfresca l’eredità di Viviani, Carosone, Napoli Centrale, Pino Daniele e 99 Posse. Mi viene in mente il rock-folk dei Foja, l’intimismo della chitarra di Gnut, il sound gitano degli Ars Nova, la mitologia dei quartieri raccontata da Giglio o la poesia d’autore di Giovanni Truppi. Riesci a trovare una tua collocazione in questa platea così affollata?
«Secondo me il sound a cui ti riferisci è un’altra storia. Parliamo degli anni ‘80 di Pino Daniele e Napoli Centrale, mentre il movimento attuale è più un folk in stile La Maschera che, per quanto io apprezzi molto, trovo limitante per etichettare la scena musicale napoletana. Ho la sensazione che non ci sia varietà, perché mi manca il blues man, il rocker, il punk. Raffaele Giglio, per esempio, insieme a Il Befolko (Roberto Guardi) sono a mio parere i migliori cantautori non solo di Napoli, ma mi azzardo a dire della Campania e probabilmente di tutta Italia, oltre ad essere artisti di grande ispirazione per me. Se dovessi trovare una mia collocazione, direi umilmente che tento di creare qualcosa di inedito, riportando in auge la raffinatezza di sonorità passate – soprattutto quelle anni ‘60 – con la speranza di spronare chi mi ascolta a sperimentare di più».
Ho ripescato un video del concertone del primo maggio a Napoli in cui hai suonato con Fede ‘n’ Marlen davanti ad un pubblico immenso. Quanto ti manca fare concerti?
«Questa è una bella domanda. Quel concerto fu meraviglioso. Ho suonato un assolo portandomi la chitarra dietro la testa ed è stato uno di quei momenti in cui mi sono sentito davvero orgoglioso e fiero di fare il musicista. Il senso del mio mestiere è tutto lì e in questo periodo così critico mi manca tantissimo. Credo che la concezione dell’arte in un paese sia lo specchio del suo apparato politico e dell’ideologia su cui si fonda. È chiaro che la mia categoria, ancora una volta dopo maggio, sia stata messa da parte nel dibattito internazionale».
Progetti per il futuro (covid-free)?
«Promuovere questo nuovo disco che, purtroppo, non ha mai visto la luce sui palchi, nonostante i pezzi stiano già iniziando a girare grazie all’affetto di chi mi supporta. Poi immagino l’incisione di nuovi lavori discografici, anche perché ho scritto talmente tante canzoni in questa reclusione, che penso di avere materiale per altri due album…»
Io non vedo l’ora.
Francesca Eboli
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