“La vita davanti a sé”, perché di integrazione bisogna parlare sempre
La vita davanti a sé rappresenta il grande ritorno sugli schermi della nostra tanto amata Sophia Loren, musa del cinema mai dimenticata.
Una storia di amore e di integrazione, tratta dal romanzo omonimo di Romain Gary e diretta dal regista Edoardo Ponti, figlio della Loren.
In seguito alla vittoria del Premio Goncourt nel 1975, La vita davanti a sé di Romain Gary è divenuto un classico della letteratura francese del ‘900, grazie alla sua prosa elegante ma adatta ad un pubblico popolare.
Gary racconta di uno spaccato sociale, culturale e multietnico di una Parigi che cambia di giorno in giorno sempre più velocemente.
Edoardo Ponti ha scelto di riadattare tale romanzo spostando l’ambientazione in Italia, a Bari, nella città che è territorialmente nota come La Parigi del Sud per la sua struttura architettonica e per i suoi colori.
“Dicono che tutto è scritto e non si può cambiare niente. Sono Momo e sono orfano. Io voglio cambiare tutto”.
A Momo non piace il suo vero nome, Mohamed, troppo lungo.
Preferisce essere chiamato Momo.
In seguito alla “tragedia” – come la definisce il suo affidatario, il Dottor Cohen – nella quale ha perso la sua mamma, Momo rapina al mercato una donna anziana, rubandole due candelabri d’argento con il fine di rivenderli.
Quello che Momo non sa è che la donna rapinata non è una qualunque donna del paese, ma si tratta di Madame Rosa. Madame Rosa abita nello stesso condominio del dottor Cohen, sopravvissuta al dramma dell’olocausto, gestisce una sorta di rifugio per i bambini figli di prostitute, le quali non possono tenerli con loro.
Il Dottor Cohen scopre il furto e costringe Momo a restituire i candelabri a Madame Rosa. Il dottore è ormai troppo anziano e stanco per badare ad una mina vagante come Momo, così chiede a Madame Rosa di tenerlo con sé per un paio di mesi, il tempo di trovargli una nuova sistemazione. Inizialmente Momo non è contento di vivere con Madame Rosa e con gli altri bambini ed inizia a spacciare.
Dal canto suo, neanche la donna è contenta di dover badare alle scorribande di Momo, imprevedibile e diffidente nei confronti di tutti.
Ad un certo punto qualcosa cambia: in Momo la diffidenza inizia a lasciare spazio alla consapevolezza. Consapevolezza che forse, lì fuori, c’è qualcuno che lo ama, pronto a prendersi cura di lui e soprattutto scopre cosa significa prendersi cura di chi si vuol bene.
Insomma, lettori, traendo le conclusioni, ciò che salta immediatamente all’occhio è che La vita davanti a sé tocca, senza mai scavare nei temi proposti, altresì punta notevolmente sull’empatia del suo pubblico, pronto a toccare le corde emozionali di ciascuno di noi.
La pellicola porta in scena un tema caro ai nostri politici e alla nostra generazione, quello dell’integrazione razziale, in modo leggero e se vogliamo a tratti poco approfondito, ma che funziona.
Funziona come film da proporre nelle scuole, funziona come film dopo cena da vedere con la propria famiglia.
Semplicemente, funziona.
Funziona perché ci mostra come, a volte, tendere una mano verso chi è in una condizione precaria può salvarla dal suo inferno personale.
Catia Bufano
Vedi anche: Intervista ad Elena Brescia: Tik Tok e l’estro imprenditoriale della generazione Z