Il Natale in casa Cupiello di De Angelis: un presepio col vizio dell’ossequio
Il 22 dicembre in prima serata su Rai 1 il commovente presepio eduardiano di Natale in casa Cupiello è entrato nei salotti italiani vestito del corposo cinema di Edoardo De Angelis, fedelissimo discepolo di quella miniera aurea che è l’eredità del drammaturgo napoletano.
Una traduzione puntuale, seppur infarcita di inedite nevrosi.
Così devota alla tradizione da dribblare scelte ardite e scongiurare ogni tradimento.
Ma forse è proprio con un tradimento che la sostanza emotiva di De Filippo avrebbe saputo parlare al nostro di presepio, così scollato e spento…
Un’attesa palpitante, animata dalla (prevedibilissima) faida tra chi si è speso in salivate arringhe contro una manovra filmica dissacrante e chi ha imbracciato una lungimirante sospensione del giudizio, prima della messa in onda dell’altra sera. Un esperimento che ha fatto tanto discutere a ha diviso quei seguaci puristi dell’”eduardianesimo” da chi una chance a quest’altro di Edoardo l’ha voluta concedere.
Il regista, che ha già fatto bene sul grande schermo con Indivisibili (2016) e Il vizio della speranza (2018), si è lanciato nell’onerosa impresa di scomodare degli intoccabili, trascinando le paturnie della famiglia Cupiello dalle assi legnose del Teatro Kursaal alle pareti scrostate del fotogramma, camminando in punta di piedi tra i cocci di un dramma universale, che sfugge allo scrutinio austero del tempo.
Dopo gli adattamenti tv del 1962 e del 1977, che hanno imbalsamato questa tragicommedia nelle teche splendide dei capolavori veri, ecco che De Angelis ci propone una trasposizione cinematografica Rai-Picomedia scivolata negli anni ‘50, a metà tra macerie di guerra e miracolo economico.
Sul podio interpretativo un appassionato Pietro Castellitto nelle vesti acri di un Lucariello (insolitamente) iracondo che non riesce a prendere “calimma”, spalleggiato dall’esasperazione potente di Cuncè, la classica matrona napoletana “a portare i pantaloni in casa”, maneggiata con grande cura da una gigantesca Marina Confalone. Tony Laudadio indossa i panni di Pasquale, fratello del protagonista e bersaglio delle marachelle del Nennillo, “ladro immatricolato”, figlio scanzonato e fannullone che “senza zuppon’ ‘e latt’ nun se sosa”. A prestargli voce e corpo quell’enfant prodige di Adriano Pantaleo, perfettamente in parte nelle nenie capricciose di Tommasino ma forse troppo indulgente ad accenti caricaturali che appesantiscono la “creatura” originale di Luca De Filippo. In questa natività affollata prende posto la figlia Ninuccia (Pina Turco), una madonna bruna, supplicante e affranta costretta nel matrimonio infelice con Nicolino (Antonio Milo), rispettabile commerciante e marito cornuto, ignaro della liaison che lega sentimentalmente la moglie a Vittorio (Alessio Lapice).
L’esperimento cinetelevisivo di De Angelis è un pregevolissimo pegno d’amore che tenta di restituire un nuovo afflato ad una trama che mai sa tacere, lasciandosi piacevolmente guardare soprattutto dai profani dei classici teatrali partenopei. Ma, com’era naturale e prevedibile, la godibilità di questa traduzione tende facilmente ad essere sporcata da un precedente che i devoti faticano ad ignorare, arrancando sotto il peso di una genitorialità immensa. Una prova di settima arte che, a tratti, affanna nella sua corsa verso il rovinoso epilogo, un affanno che la timida esplorazione del mezzo cinematografico da parte del regista non è riuscita ad “ammacchiare”.
Bellissimo il piano sequenza iniziale che ci porta per mano negli interni di Casa Cupiello, insieme al close-up sul muschio e i pupazzi di terracotta dell’amato presepio. Così come lo scenario surreale e rarefatto di una Napoli spruzzata di neve, tra il bancariello dell’acquafrescaia, i fiati degli zampognari e la bottega artigiana dove Lucariello sceglie i suoi Magi. E ancora, l’inquadratura del “capitone fujut” la sera del cenone di Natale e la chiacchiera con quell’ “illuso” di Don Luigi sulla fantomatica gara di presepi che il dirimpettaio pensa ingenuamente di vincere. Questi brevi intermezzi sono il vero pregio del prodotto firmato da De Angelis, perché sfondano sapientemente il fondale scenico e dilatano il nostro sguardo, mostrandoci quegli scorci solo immaginati e intagliati dalla parlata assorta di Lucariello. È qui che si disvela la tridimensionalità pura e la qualità cinematica che quest’opera sembrava promettere. Ma è il resto a raccontare tutte le (fisiologiche) insidie di questa chirurgia drammaturgica che stenta ad uscire dai margini del testo teatrale e poco osa…
Castellitto maneggia la tesoriera di De Filippo superbamente per le sue doti attoriali, le sue battute trasudano studio minuzioso della lingua eduardiana e innegabile dedizione al mestiere. Ma che fine ha fatto quella trama sotterranea di comicità disillusa e amara da patriarca spodestato?
Dove sono quelle pause enfatiche e lo sguardo sospeso che raccontano la fanciullezza di un innocente, meraviglioso idiota che lotta contro le crepe di un microcosmo familiare in dissoluzione? E la straordinaria mimica di De Filippo che scandiva i tempi comici e sembrava sciogliersi miracolosamente in scena, come una sorpresa, in un linguaggio straordinariamente improvvisato?
Il Lucariello di Castellitto è un personalissimo tentativo di rileggere questo Amleto della piccola borghesia che, purtroppo, sacrifica quel magmatico non detto che è la vera forza di questa storia, fatta di dense pause e allusioni rotte. Quel “Niente, Lucariè, niente” che esploderà nel pathos finale e verrà sublimato poi dalla soffusa malinconia dell’ultima scena.
Insomma, l’ingegneria visiva montata da De Angelis è la rivisitazione linguistica di un devoto che obbedisce ossequiosamente al copione antico, cerca di piegarlo alle virtù dell’alfabeto cinematografico ma resta imbrigliato nella scatola angusta della tv, a metà tra quinte teatrali e macchina da presa. Splendida la fotografia bronzea di Ferran Paredes Rubio e i colori originali di un passato napoletano che non cade nelle trappole degli stereotipi. Plauso anche alla colonna sonora di Enzo Avitabile tra afrobeat e sax e al commovente Vissi d’arte di Puccini cantato dalla superba Maria Callas, a conclusione di questo presepio vivente col vizio dell’ossequio.
Francesca Eboli
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