Terapia: è ancora un tabù?
Siete in terapia?
Avete mai pensato di andarci?
Cosa ferma tante persone dal rivolgersi ad uno psicologo? E perché?
Quante volte abbiamo notato di avere un problema irrisolto? E quante volte, però, la soluzione scelta è stata quella di rivolgersi ad un professionista?
La salute mentale, in Italia, non è ancora una questione molto chiara. Non le si dedica il giusto rispetto e nemmeno l’attenzione adeguata.
Quando si ha un problema fisico si ricorre nell’immediato al medico specializzato in quel campo. Quando si riscontra un fastidio di natura psicologica, invece, rivolgersi ad un terapista non è così repentino. Anche comprendere il motivo di ciò sarebbe un perfetto compito per uno psicologo. Ironico, vero?
Per farsi un’idea, però, va sicuramente analizzato l’ambiente sociale e culturale italiano.
Nel Bel Paese la scienza della psicologia ha preso piede davvero in ritardo rispetto a molti altri stati. Risalgono, infatti, al 1971 i primi corsi di laurea sul tema (a Roma e a Padova) e l’istituzione dell’Ordine è avvenuta addirittura nel 1989. Questo lento avvicinarsi alla materia si fa sentire ancora oggi, poiché un’idea chiara di cosa faccia lo psicologo e come operi non è ancora palese ai più.
La figura del terapista è molto confusionaria nell’immaginario dell’abitante medio italiano. Spesso si ritiene che le sedute con uno psicologo, dunque con una persona istruita e preparata a sciogliere i nodi che gli ingarbugliati fili della salute mentale possono creare, siano facilmente e banalmente sostituibili con una chiacchierata tra amici o con un parente.
Ciò che non viene preso in considerazione è, però, la differenza che intercorre tra le relazioni. La persona a noi vicina ha nei nostri confronti una propensione per niente distaccata e ancor meno oggettiva. Aprirci con quest’ultima, perciò, è sicuramente catartico nella sfera momentanea e probabilmente un aiuto nel futuro prossimo. Ma risolve davvero il problema? Si va alle basi della questione? Si capisce come venirne fuori e come prepararsi quando ricapiterà di sentirci in quel determinato modo? Una persona comune, per quanto empatica e propensa a comprendere l’altro, può davvero conoscere appieno i funzionamenti del complesso meccanismo dietro il nostro cervello? E le sue sole parole possono aiutarci a modellarli?
Per quanto una delle frasi più pronunciate in Italia sia “Mi sono sempre sentito un po’ psicologo”, no, non nasciamo psicologi, e nemmeno lo diventiamo per scienza infusa.
Lo psicologo non si mette ad ascoltarci pronto a darci un consiglio in onore dell’affetto. Ci studia, studia la nostra psiche e tutti i fuochi che partono da piccole scintille posizionate da tutt’altra parte, grazie ad un micromondo di nozioni apprese sull’argomento. E ci insegna, col tempo e la fiducia, ad attutirli e a sapere come non accenderli.
Il terapista, a differenza di quanto l’immaginario di matrice socio-culturale ancora diffuso voglia, non è uno stregone, non è un nemico e non vuole sgretolarci a suo piacimento per scopi economici. Vuole ricomporci. Certo, sotto corresponsione pecuniaria, ma nessuno lavora gratis, giusto?
Nemmeno i genitori che a volte sono spinti ad impedire le sedute, nemmeno i concittadini che non lo vedono di buon occhio, nemmeno gli amici che iniziano ad interrogarsi. Ma su cosa c’è da interrogarsi? Perchè queste remore?
Comprendere di non essere sereni non è forse una dimostrazione di forza? Scegliere di iniziare un cammino verso la salute mentale, non è già l’inizio di quest’ultimo? Perché opporsi ad una presa di coscienza? Perché porsi a blocco sulla strada verso la serenità?
Perché la vulnerabilità non è ben accetta nella società della perfezione. Mostrare un cenno di imperfezione nella società plastificata quale è quella assolutamente consumistica e capitalistica nella quale viviamo va fuori dai binari dell’attualità patinata. E non è facile permettere agli altri di risultare vulnerabili.
E ancor più non è facile ammettere di non poter essere loro d’aiuto. Si cerca di impedire che sia un’altra persona a venire incontro a qualcuno a noi caro, illudendoci di avere il potere di salvarlo dai suoi demoni, quando ammettiamo che ce ne sono. Ma non siamo tuttologi. Cedere l’incombenza non è un simbolo di incapacità. È un simbolo di grande comprensione, di grande consapevolezza e di grande amore.
Farsi aiutare è importante. Lasciare che gli altri vengano aiutati, senza giudizi e senza pressioni, lo è anche più.
Giovanna Iengo
Vedi anche: Regione Campania, in arrivo lo psicologo di base