Omaggio a Peppino De Filippo in memoria della sua scomparsa
Tra il 26 e il 27 gennaio 1980 (le fonti discordano sulla data precisa) si è spento uno dei più grandi artisti del secolo scorso: Peppino De Filippo.
Nell’anniversario di morte, vogliamo rendere giustizia al suo poliedrico talento, troppo spesso ridotto alla maschera di Pappagone o ai ruoli secondari come spalla.
Giuseppe, Luca, Gennaro De Filippo nacque a Napoli il 24 agosto del 1903, terzogenito di Luisa De Filippo, dopo Titina e Eduardo. Tutti e tre erano frutto dell’unione extraconiugale con Eduardo Scarpetta, il quale non poté riconoscerli legittimamente.
Interessanti e preziose per approfondire la famiglia, la carriera e la personalità dei De Filippo, si segnalano le autobiografie Strette di mano e Una famiglia difficile.
Scopriamo, per esempio, che la primissima rappresentazione teatrale di Peppino e di Eduardo fu nel 1909 sul balcone di casa per una coppia di simpatici vecchietti.
Con l’arte nelle vene, sin da giovanissimo si avviò alla carriera teatrale, sperimentando varie compagnie, come quella del fratellastro Vincenzo Scarpetta o la Molinari, dove conobbe Totò. I primi anni furono duri ed economicamente poco redditizi.
Il successo nazionale raggiunse i tre fratelli solo quando si unirono a formare la Compagnia Il Teatro Umoristico I De Filippo nel 1931, poi sciolta a seguito dello storico litigio nel 1944, data a partire dalla quale Peppino e Eduardo intrapresero strade artistiche e personali diverse.
La divisione riscosse grande attenzione creando vere e proprie fazioni, simil guelfi e ghibellini. Non ci soffermiamo sulla spinosa questione, diciamo semplicemente che la maggior parte di quelli che li hanno conosciuti personalmente ritiene che la separazione sia stata la scelta migliore per entrambi, caratterialmente e ideologicamente divergenti.
Peppino, separatosi anche dalla prima moglie, si trasferì a Roma dall’amore della sua vita Lidia Maresca e lì fondò la Compagnia del Teatro Italiano. Con questa voleva distaccarsi dal teatro dialettale, che gli pareva limitato, per volgersi ad un linguaggio più moderno: una lingua italiana non rigida, ma piena di inflessioni dialettali, rispecchiante la realtà sociale.
Il suo teatro si definisce “comico-grottesco”, rispetto a quello eduardiano “tragico-umoristico”. Ciò non significa che la produzione di Peppino sia volta unicamente alla risata facile: dietro l’apparente leggerezza e ilarità, si cela la volontà di spingere lo spettatore a riflettere, trasformando il sorriso in una smorfia di commiserazione. Egli mette in scena in chiave comica la miseria umana nelle sue contraddizioni.
La sua produzione si sviluppa attraverso tre fasi: dalla farsa burlesca influenzata dalla tradizione della maschera napoletana, a una fase intermedia grottesca ma amara, ad una terza più impegnata e matura ricca di spunti della Commedia dell’Arte.
Il partenopeo era di una comicità innata e irresistibile. Pensate che durante la rappresentazione del Berretto a sonagli, in cui doveva comparire immobile e silenzioso accanto al fratello che recitava un drammatico monologo, il pubblico non riusciva a trattenersi dal ridere al cospetto della sua presenza.
Ricordiamo alcune delle sue opere più riuscite: Don Rafèle ‘o trumbone, Un ragazzo di campagna, Non è vero ma ci credo e, sopra tutte, Le metamorfosi di un suonatore ambulante, farsa musicata con la quale trionfò in festival teatrali all’estero.
La critica è concorde nel ritenerlo più bravo come attore che come autore. Una delle migliori interpretazioni, ineguagliabile, è quella del protagonista Liolà, nell’omonima commedia pirandelliana, parte che all’inizio non voleva neppure accettare.
Quantunque il suo vero amore fosse il teatro, l’attore partecipò a ben 96 film, sporadicamente come protagonista. Questo è un peccato, perché egli si mostra perfettamente a suo agio davanti alla cinepresa e dà il meglio di sé quando diretto da bravi registi. Pensiamo a Luci del varietà di Fellini e Lattuada, l’unico film di cui Peppino sia veramente orgoglioso. Inoltre, nella scena finale de Il mio amico Benito trapelano le sue potenzialità inespresse anche in ruoli drammatici.
Chiaramente il suo periodo aureo nel cinema corrisponde al sodalizio artistico con Totò che conta 14 film (tra il 1953 e il 1964). L’intesa tra i due era perfetta e unica, tanto da risultare naturale l’improvvisazione in scena. All’interno del ciclo comico Totò, Peppino e… spicca Totò, Peppino e i fuori legge, con il quale si aggiudicò il Nastro d’argento come migliore attore non protagonista.
Ottenne ulteriori riconoscimenti alla carriera, come la Maschera d’argento e la Grolla d’oro.
Il grande pubblico lo amò nelle vesti di Pappagone, macchietta nata nel 1966 in occasionedella trasmissione televisiva Scala Reale. È l’ultima vera maschera italiana, pienamente inserita nel repertorio della Commedia dell’Arte. Il personaggio, il cui nome deriva da un tipo di prugne napoletano, divenne il suo alter ego. Autoironico e autentico, caricatura dei difetti italiani, diventò una star e il suo vernacolo-italianizzato divenne idiomatico. Peppino era sì contento del successo, ma non voleva essere identificato esclusivamente con la maschera che avrebbe rischiato di fagocitare la sua lunga carriera.
Per tanto, per riscattarne la volontà, merita di essere omaggiato non solo come Pappagone e comico, ma anche come valido attore, commediografo, scenografo e scrittore.
Scenografo poiché era un bravo disegnatore, tanto da curare personalmente alcune scenografie dei propri spettacoli.
Scrittore perché compose sia favole sia versi. Le favole trattano temi politici e morali. Una di queste (Petrolino) vinse persino il Premio Andersen.
L’attività versificatoria è stata vissuta da lui umilmente come esercizio di scrittura, personale, occasionale e sussidiaria. Non si definiva un poeta, eppure il suo versificare è piacevole, fresco e spontaneo, polimetrico e dotato di un vivido linguaggio pieno di figure retoriche. Iniziò appena maggiorenne, scrivendo biglietti amorosi per una collega attrice.
Nel 1952 raccolse 45 componimenti in una prima raccolta dedicata al figlio Luigi. Realizzò quattro edizioni accresciute e modificate, fino all’ultima del 1973 di 129 componimenti e dal titolo Paese mio. Poesie e canzoni napoletane.
Le poesie vanno dall’autenticamente descrittivo all’evasivamente fantasioso, abbracciando un’ampia gamma tematica: da quadretti naturalistici e sociali, affetti e ricordi familiari a riflessioni etico-morali, politiche e religiose. Segnaliamo le sentimentali poesie per la morte di Lidia e il ricordo nostalgico della casa d’infanzia in A casa vecchia.
Peppino si qualifica anche come autore di testi musicati, spesso tratti proprio dalle poesie (Paese mio).
Ma com’era Peppino uomo? Dalle dichiarazioni di familiari e colleghi viene fuori l’immagine di un bell’uomo mediterraneo dagli occhi neri ed espressivi, solare e affabile, attore serio e capocomico esigente, ma paziente e paterno con i giovani attori. La nipote Carolina lo ricorda come un nonno “attento e premuroso”. Aveva anche un lato oscuro, un carattere spigoloso e rancoroso.
Spulciando tra gli articoli subitanei alla scomparsa, si nota uno spaccamento nell’opinione pubblica: tra chi vedeva nascosto nella sua comicità un moralista risentito e misantropo e chi piangeva la perdita di un genio artistico.
Quel 26 gennaio di 41 anni fa, la cultura italiana e partenopea ha perso un pilastro. In questo triste giorno di commemorazione, ricordiamolo con orgoglio, rispolveriamo il suo repertorio e come consigliava Kezich, giornalista de La Repubblica:
«[…] fate pure l’esperimento, cronometro alla mano in meno di 30 secondi (scommettiamo?) questo implacabile esattore, forte di un arte vecchia di secoli, vi avrà strappato almeno un sorriso».
«E ho detto tutto!»
Fonte principale: Ciro Borrelli. Peppino De Filippo. Tra palcoscenico e cinepresa. Kairós Edizioni. Ristampa aggiornata Ottobre 2020.
Giusy D’Elia
Vedi anche: Il teatro di Eduardo De Filippo