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Polemica Clubhouse: la fabbrica della socialità acustica divide gli utenti

Clubhouse, il social che ha ribaltato i dettami dell’estetica digitale rendendo la voce unico mezzo di networking, attrae per l’assoluta novità del format ma fa anche discutere per alcune pecche sulla privacy, ad oggi non troppo trasparente.

Proviamo a capirci di più…

È stato lanciato poco meno di un anno fa da una piccola società americana di sviluppatori software, ma solo nelle ultime settimane se ne sta parlando a iosa. Così tanto che Zuckerberg starebbe già lavorando all’ideazione di un competitor e la Cina ne avrebbe bannato l’uso nel paese, dove il numero di utenti è lievitato vertiginosamente negli ultimi giorni.

Accade così che nell’epoca del totalitarismo estetico, tra i filtri iper-piallanti di Instagram e il sonoro preconfezionato dei TikTok, in cui la verbalità del singolo viene completamente scarnificata e ridotta allo sforzo di un lip-sync, quest’app nuova di zecca riporta in auge il potenziale comunicativo dell’oralità nella vetrina lucente dei colossi social.

Stiamo parlando di un labirinto di stanze virtuali a numero chiuso ideato da Alpha Exploration, un concept che punta tutto sull’interazione vocale lasciando a casa like, IGTV, reels e i corpi eterei delle influencer. E se non sei abbastanza fortunato da accedere alla lista esclusiva degli ospiti a un evento, non c’è speranza per il tuo curioso orecchio di imbucarsi alle room affollate di brusii e chiacchiere, riservate ad una cerchia ristretta di privilegiati rigorosamente team Apple (visto che l’app è stata progettata solo per iPhone, scartando momentaneamente i più sfigati Android). Un po’ come accade in quei club patinati dove entrare diventa un terno al lotto: senza il gioco di passaparola e le giuste conoscenze, non ti basterà dribblare la security e metterti in tiro rispettando il dress code per accedere al più blasonato dei party.

A popolare questa invisibile rete di cellule rumorose, conversazioni a tema organizzate da professionisti del settore – come giornalisti ed esperti di comunicazione o marketing, attirati dalle dinamiche interattive di questo nuovo prodotto in mercato. E oltreoceano rispondono all’appello anche i nomi di famosissimi, come Oprah Winfrey e Drake, trascinati dalla novità assoluta di questa modalità di chattare, così pop e irresistibile.

Ma capiamo effettivamente come funziona questa nuova fabbrica di socialità acustica…

Sembra che dopo aver rimediato l’invito tramite altri utenti (su eBay sarebbe addirittura sbucato un mercato nero che li spaccia fino a 30 euro) e una volta varcata la soglia di una stanza, sarà come entrare in punta di piedi in un podcast interattivo, una conversazione live disciplinata dai moderatori, figure apposite che concedono la parola a chi, dall’invisibile platea, voglia “alzare la mano” per unirsi al dibattito. Insomma, uno scambio all’insegna dell’educazione e della selettività, dove le regole grammaticali della testualità visiva non trovano posto (anzi voce, per restare in tema).

Il principio è ripristinare una presunta autenticità perduta, hanno dichiarato i fondatori Paul Davison e Rohan Seth, riscattare un contatto umano ed empatico perché immateriale, avulso dalle sovrastrutture fuorvianti dell’immagine e restituito allo stadio elementare di messaggio tribale nella forma, per quanto sofisticato nel contenuto. Sì, perché l’innervarsi della cultura digitale nella nostra quotidianità, inevitabilmente, ha ridefinito il modo in cui l’individuo esperisce la realtà e l’informazione, stravolgendo abilità cognitive, dinamiche relazionali e intelligenza (emotiva e non). E una community fondata sull’uso esclusivo del mezzo orale non può che sedimentare una struttura comunicativa intensa, una sensorialità amplificata che codifica gli stimoli immediatamente, senza gli sgambetti di uno sguardo distratto, che fa fatica a selezionare ed elaborare dati perché bombardato dalla pioggia di contenuti che scrollano fluidi sugli schermi luminosi dei nostri smartphone ogni giorno.

Ma sarà davvero così? E se chiuderci nello spazio asettico di una conversazione anonima con interlocutori senza volto fosse l’ennesima trappola della virtual reality? E se si trattasse dello step avanzato dell’alienazione digitale sotto mentite spoglie? Camuffato dal presupposto di un necessario ritorno alle origini attraverso una parola vergine, smaterializzata?

A rendere il tema Clubhouse ancora più caldo, se possibile, è la diatriba (ormai virale) del trattamento dei dati in piattaforma. La policy sulla privacy sembrerebbe infatti non rispettare il Gdpr europeo, secondo lo Stanford Internet Observatory, esponendo le informazioni personali degli utenti a forti vulnerabilità nel chiedere la condivisione dei contatti in rubrica al momento della registrazione. Le autorità garanti (quella italiana inclusa) hanno già provveduto a chiedere delucidazioni alla società e, anche se la risposta ancora non arriva, lo scetticismo diffuso sulla sicurezza informatica del social ha fatto storcere il naso anche ai più entusiasti.

Magari si rivelerà l’invenzione hi-tech all’ultimo grido sfornata da Silicon Valley, l’ennesima ad impazzare in larga scala nel turbinio impalpabile di distrazioni che si stanno appropriando subdolamente del nostro contatto col mondo vero. O magari sarà davvero un toccasana per questa generazione cresciuta a pane e social network, una terapia d’urto a rivitalizzare i motivi antichi del fare comunità, senza post artefatti e algoritmi impossibili.

Chissà…

Francesca Eboli

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Francesca Eboli

Spirito irrequieto made in Naplulè che colleziona fissazioni dal 1995: andare a cinema e a teatro da sola, scovare boutique vintage invisibili e bazzicare posticini senza tempo. Laureata in lingue, scrive, recita e nel tempo libero vaga tra i quattro angoli del mondo con Partenope in tasca. Vietato chiederle cosa vuole fare da grande.

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