Famolo strano: le abitudini eccentriche degli scrittori famosi
Mostrami la tua stranezza e ti dirò chi sei: tutti, a prescindere dalla quota di creatività insita nel nostro cervello, abitiamo o, più precisamente, siamo abitati da vizi di forma, ossessioni, riti e blande superstizioni che puntinano di interessanti imperfezioni un’altrimenti piatta quotidianità, oltre i dati della carta d’identità, oltre le cose che amiamo, odiamo, facciamo allo stesso modo del resto del mondo.
Gli artisti, poi, sono i peggiori: che sia per dar forza al personaggio che si cuciono addosso o per nascondersi da quello di cui la notorietà li veste, capita spesso che su questi piccoli “tic” e peculiarità forzino un po’ la mano, modellando un’eccentricità su misura.
Eppure, tutte queste porosità della mente finiscono, sempre, per raccontare qualcosa dell’essere umano che se le porta dentro.
Non fanno eccezione gli scrittori. Famosi autori del passato si sono distinti, oltre che per le loro opere, anche per i metodi, le superstizioni, i riti che hanno preso parte al “parto” delle loro fatiche letterarie.
C’è stato chi, ad esempio, aveva un metodo di lavoro… particolare. Uno su tutti, Jack Kerouac: nel 1951, dopo aver ammassato per anni note ed ispirazioni nei suoi diari, scrisse tutto On the road durante un’unica febbrile esplosione. Ma, soprattutto, per non perdere tempo a ricaricare la macchina da scrivere, riversò tutto il suo genio su un’unica strisciata di carta, che poi presentò al suo incredulo editore Robert Giroux svolgendo il chilometrico rotolo sul pavimento dell’ufficio.
Virginia Woolf, invece, usava lavorare in piedi, poggiando i fogli su una scrivania verticali, come fossero tele. Malelingue affermano che avesse preso questa particolare abitudine per una sorta di competizione con la sorella Vanessa Bell, pittrice: non voleva che il suo lavoro potesse sembrare agli altri meno arduo.
James Joyce, dal canto suo, scrisse tutto il manoscritto per Finnegans Wake con pastelli colorati su cartoncino, ma per questa stranezza c’è in realtà una spiegazione molto pratica: nonostante i suoi venticinque anni, Joyce era stato ridotto alla quasi cecità da una malattia infantile da cui non riuscirono a salvarlo più di venti operazioni agli occhi, e scrivere con colori brillanti su grossi pezzi di cartone era l’unico modo in cui gli riuscisse di lavorare.
C’era poi chi si adoperava ad un ritmo così folle da aver bisogno che il proprio editore gli mandasse delle matite tonde per alleviare il dolore dei calli alle dita dovuti all’eccessivo uso delle classiche matite a forma esagonale: parliamo dell’autore di Uomini e Topi, John Steinbeck che, per terrore di dover improvvisamente interrompere il proprio lavoro, si accertava ogni mattina di avere esattamente dodici matite perfettamente appuntite sulla scrivania.
Ovviamente, parlando di artisti, occorre menzionare anche qualche eccentrica superstizione certamente meno “pratica”: Truman Capote, ad esempio, si rifiutava categoricamente d’iniziare un pezzo di venerdì, pretendeva gli cambiassero stanza d’albergo se questa aveva un 13 annidato nel numero di telefono e usava il posacenere solo per le prime tre sigarette della giornata, conservando le cicche delle successive nel taschino della giacca.
I colori sono ricco terreno di “tic” artistici: Alexandre Dumas riusciva ad alternarsi tra prosa e poesia solo potendo alternare anche i colori dei fogli su cui scrivere. Per tutti i suoi articoli utilizzava fogli rosa, per le bozze dei romanzi fogli blu e per le poesie fogli gialli; a proposito di colori, Lewis Carroll si rifiutava d’intingere la penna in qualunque altro inchiostro che non fosse rigorosamente viola, e a proposito di viola, la già citata Virginia Woolf comprava penne di colori diversi ma tutte le sue lettere d’amore a Vita Sackwille-West sono scritte in svolazzante grafia viola.
Alcuni grandi autori “danno i numeri”: delle dodici matite di Steinbeck e le tre sigarette di Capote abbiamo già detto, ma ci sono anche Jack London, che nella sua carriera ha calcolato di aver scritto esattamente 1000 parole al giorno, Stephen King, che ne scrive 2000 ogni mattina, ma senza nemmeno un aggettivo, e Arthur Conan Doyle, che affermava di essere arrivato addirittura ad una quota giornaliera di 3000 parole. Per un eccesso, però, c’è sempre quello inverso: Dorothy Parker diceva di non essere capace di scrivere cinque parole senza cambiarne sette, e Joyce considerava una piena giornata di lavoro la scrittura di due frasi senza nessun errore.
C’è, infine, chi è arrivato ad adottare misure d’ispirazione estreme: per dirne una, Victor Hugo, di fronte all’avvicinarsi della tremenda scadenza per la presentazione al suo editore di Notre Dame de Paris, nell’autunno del 1830 comprò una grossa scorta di boccette d’inchiostro, bruciò i propri vestiti per eliminare la tentazione di uscire di casa e letteralmente si barricò nel suo studio per mesi, tenendo addosso solo un enorme palandrana lavorata a maglia per l’occasione. Finì il romanzo ben prima della scadenza.
Ma probabilmente l’abitudine più strana, l’ossessione più eccentrica è quella del filosofo ed autore tedesco Friedrich Schiller, raccontata dall’amico Goethe: un pomeriggio in cui l’autore aspettava nello studio di Schiller che questi rientrasse da una commissione, si sedette alla scrivania per buttare giù alcune note, e fu sorpreso da un odore nauseabondo proveniente dall’interno dello scrittoio. Goethe aprì allora uno dei cassetti, per trovarci una pila di mele che marcivano lentamente, producendo un tanfo tale che quasi svenne. La moglie del filosofo, Charlotte, poté solo rivelargli la stramba verità: Schiller lasciava volontariamente marcire la frutta nei cassetti della scrivania in quanto, a suo dire, l’aroma che ne esalava in qualche modo finiva per ispirarlo!
Indubbiamente, anche scegliersi, o coltivarsi, una stramberia, una curiosità, un tratto inusuale della propria personalità richiede una certa dose di creatività e forse coloro i quali indulgono più alle proprie inclinazioni si risolvono anche ad essere i più produttivi. Ad ogni modo, utilizzando una massima cara a Woody Allen, che tra l’altro è solito scrivere i concept delle proprie sceneggiature nell’affollata metropolitana di New York: whatever works, basta che funzioni!
Marzia Figliolia
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