La dislessia: e se per la diagnosi servisse la linguistica?
Le facoltà umanistiche, come molti studenti dell’ambito ben sanno, godono della cattiva fama di essere poco utili sull’orizzonte lavorativo.
Questo pregiudizio, seppur detto in modo ironico, ha sempre giustamente infastidito chi, come me, ha deciso di dedicarsi a questi settori.
Un annetto fa, però, mentre studiavo in occasione della stesura della tesi, ho scoperto come rispondere a chi continua a dirmi che sono destinata a fare la cassiera di McDonald’s: “lo sai che la linguistica potrebbe rappresentare un valido alleato nel campo medico?”.
Le teorie linguistiche, infatti, potrebbero rappresentare un valido alleato per la diagnosi tempestiva dei disturbi dell’apprendimento, o DSA, tra i quali il più noto è certamente la dislessia, una condizione di origine neurobiologica caratterizzata dalla difficoltà a effettuare una lettura accurata e fluente e da scarse abilità nella scrittura.
Cerchiamo, prima di tutto, di capire cos’è veramente la dislessia: viene vista come una neurodiversità, una normale differenza individuale, che deve essere riconosciuta e rispettata come ogni altra variazione umana. Parlare di neurodiversità, e non di deficit o ritardo, comporta un radicale mutamento di questo concetto.
Non si tratta di utilizzare una definizione politicamente corretta o di introdurre un eufemismo, perché sicuramente non cambia la natura delle cose: non sono i soggetti dislessici ad essere sbagliati, ma è piuttosto il contesto sociale e formativo che genera le difficoltà poiché, non tollerando la diversità, tenta di correggere ciò che percepisce come il risultato di un deficit. Si tratta di manifestazioni ugualmente sane, e non di deviazioni rispetto a caratteristiche comuni, classificate come normali. La dislessia è, molto spesso, associata ad un disturbo del linguaggio, che si traduce con un ritardo della produzione linguistica persistente anche dopo i primi 4-5 anni d’età.
La teoria linguistica contemporanea, come già anticipato, potrebbe risultare un valido supporto per i clinici che mirano a diagnosticare il disturbo in maniera più precisa, e i docenti nell’individuare tempestivamente le difficoltà dei soggetti in età scolare. Il tempismo, infatti, in questi casi, è di importanza vitale. I test standardizzati usati dagli specialisti non distinguono tra registri della lingua, mentre sappiamo dall’analisi linguistica che i registri sono definiti per grammatica e lessico, che vengono acquisiti in momenti diversi della crescita. Sulla base delle teorie linguistiche si potrebbe inoltre elaborare una tipologia di test mirata ed efficace, in grado di analizzare ogni singolo aspetto della lingua, e fare considerazioni, appunto, su registri diversi.
Infatti, la lingua che impariamo durante l’infanzia, in maniera spontanea, è il registro colloquiale, ben diverso dal registro formale tipico della lingua scritta acquisito durante gli anni di scolarizzazione. L’analisi linguistica permette di fare considerazioni su questi registri, per verificare se si presentano difficoltà nelle strutture che sono tipiche del registro formale, che viene utilizzato non solo nella forma scritta, e dunque nei testi complessi che si usano a scuola o all’università, ma anche nella lingua orale formale che si utilizza all’università.
Una disciplina umanistica, dunque, può rappresentare un valido sostegno in campo medico: non è una disciplina sterile e fine a sé stessa, ma può rappresentare un metodo alternativo per diagnosticare in maniera efficace, precisa e rapida un disturbo dell’apprendimento, e consentire dunque, a tanti studenti, di vivere l’esperienza scolastica più serenamente
Giovanna Alaia
Vedi anche: Jacques Mehler: la lingua è la melodia della nostra infanzia