Intervista a 100Bronx – Il talento non basta mai
Andrea Capo, in arte 100Bronx, è un giovane rapper campano.
Fin da subito ha capito quale fosse la sua passione, il suo sogno da realizzare, ma non si è svegliato una mattina con il talento in tasca.
Ore e ore passate sui beat, giorni interi a scrivere per scrivere sempre meglio: il talento non basta mai, ci vuole impegno e perseveranza.
E questo 100Bronx lo sa bene.
Ma lasciamo che sia lui a raccontarsi.
Chi è 100Bronx?
«100Bronx è un ragazzo che ha trovato nella scrittura rap il modo per esprimersi, come tanti altri ragazzi in Italia. Credo sia stata una fortuna perché scrivere aiuta anche moralmente e psicologicamente a sfogarsi, per buttare fuori quello che hai dentro. Come disse Fabri Fibra “Quando smetterò di scrivere dovrò andare da uno psichiatra”»
Quando hai conosciuto il Rap e quando hai poi deciso di metterti in gioco?
«Il primo approccio l’ho avuto quando avevo 8 anni. Poi a 11 anni è scattata quella scintilla: perché non ci provo anche io? Ma all’inizio era difficile perché mi accorgevo che non avrei mai ascoltato una mia canzone. Mi accorgevo che facevo cagare quando iniziai a scrivere. Però proprio questo mi ha portato a scrivere sempre di più, per scrivere meglio. Puoi anche avere talento ma se non fai pratica, se trascuri quello che fai, spesso non serve a niente. Agli albori prendevo il testo di un’altra canzone e ci rappavo sopra. Poi quando iniziai a scrivere, scrivevo senza beat perché non sapevo andare a tempo, non riuscivo a seguire il ritmo.
Mi continuavo a dire com’è possibile? Perché non riesco a scrivere sui beat? Era diventata una sorta di sfida. Allora inizi a starci sopra così tante ore, così tanti giorni, fino a quando non arrivavano i risultati.»
Il rap nella sua storia si è sempre evoluto, trasformato. Cos’è per te il rap? Qual è il messaggio che deve trasmettere e soprattutto cosa ritieni autentico al suo interno?
«Il riscatto sociale. Il riscatto dei giovani che hanno qualcosa da dire, che vedono le cose che non funzionano in una società e allora lo esprimono tramite la scrittura e tramite il rap. Perché il rap è un tipo di scrittura. L’hip hop, invece, è una cultura, una cultura bella ma difficile da applicare in una società dove vige l’indifferenza. Ecco perché credo che siamo più attaccati alla trap, perché la gente quando ascolta le canzoni non vuole sentire che il mondo fa schifo. Ma noi lo diciamo lo stesso perché è così che va…fino a quando non cambieranno le cose.»
E tu quando scrivi a cosa pensi? Cosa vuoi trasmettere con la tua musica e i tuoi testi?
«Parto dal presupposto che non sempre c’è bisogno di trasmettere qualcosa quando si scrive. La vera essenza è il messaggio involontario che la scrittura può dare, provocando ricordi ed emozioni nell’ascoltatore. Ogni volta scrivo qualcosa di diverso, non lo decido neanche io, pensa tu ahahaha.»
A differenza di tanti grandi artisti che sono cresciuti nei quartieri più malfamati delle grandi città, tu come vivi la tua situazione essendo nato e cresciuto in un piccolo paese di provincia?
«La vivo come tanti altri ragazzi che sono di provincia. Perché essere isolati rende molto più difficile farsi sentire. L’hip hop, il rap va molto a quartiere. Ognuno ha il suo quartiere e quella è stata una delle cose più interessante del Rap anni ’90. Sai quando c’era Tupac, e i Mob Deep, quando c’era questa differenza di luoghi. È una cosa che chi sta in provincia non lo può dire. Non puoi dire “Ah sono di Salerno, Salerno è la mia zona”, soprattutto se fai parte di un piccolo paese. Ma è sempre il tuo paese. Bisogna sempre rispettarlo e portarlo in alto. Come dico sempre Roccadaspide è il mio quartiere. Anche quando scrivi inconsciamente tu scrivi di quello che vivi, delle persone che ti stanno accanto e del luogo in cui stai.
È facile imitare quelli che abitano a Milano, o a Roma. È facile dire quello che dicono tutti gli altri, ma poi saremmo tutti uguali e il rap non avrebbe più senso.»
Quali artisti per te hanno letteralmente cambiato la storia del rap?
«Secondo me Joe Cassano, rapper di Bologna che morì molti anni fa, i Co’Sang che uscirono con Ind’o rione e Fabri Fibra perché era quello più in alto di tutti. Nel 2006 era esploso con Mr. Simpatia. A livello internazionale, invece, sarebbe scontato dire Tupac o Eminem. Ma quando andai in Spagna dai miei amici sudamericani vidi che allo schermo stavano ascoltando un artista; si chiamava Cancerbero: è stato praticamente il Tupac dei sudamericani.»
Parlami un po’ di Wuelu, la tua crew.
«Io, Maciste e Tempesta stiamo uscendo con 3 album separati. Sto facendo un Ep, saranno quattro o cinque tracce, nelle quali mi sono molto distaccato dal rap classico, ma senza entrare nella trap. È una via di mezzo. Mi sono appassionato a molti altri artisti che non fanno rap e mi volevo cimentare anche in quel mondo, in quel tipo di musica. Sarà un nuovo genere, o almeno l’intenzione è quella. Bisogna fare sempre le cose con il proprio stile.
A me interessa avere una propria impronta chiara. Stiamo lavorando tanto e ci stiamo prendendo tutto il tempo possibile per fare le cose per bene. In passato è capitato di fare le cose con troppa fretta, quindi adesso siamo più maturi e consapevoli che per far uscire un prodotto di qualità ci vuole tempo, pazienza e impegno.»
In questi anni sono arrivati i primi successi e tante soddisfazioni. Come hai vissuto tutto ciò?
«L’ho vissuto bene, ma non bisogna mai montarsi la testa. Devi pensare a te stesso e alla tua crescita personale. Secondo la mia crescita personale quando ero più ragazzino volevo entrare in Rap Pirata; alla fine riuscii ad entrarci anche se poi sono uscito. Riuscii a pubblicare anche il singolo Tutto cambia sul canale Rap Pirata. Io volevo entrarci a tutti i costi, era il mio sogno. Poi ti rendi conto che non tutti i sogni sono belli come te li immagini. Il sogno sei te stesso. Non devi mai fare affidamento sugli altri, soprattutto su gente che non conosci. Devi restare umile con te stesso e con le persone che hai intorno.»
Il rap è denuncia sociale, rivincita, ribellione. Qual è il messaggio che vuoi lasciare al mondo?
«Un messaggio che viene trascurato era di una grande persona, Gramsci; lui diceva “Io odio gli indifferenti”. Credo che il problema della società in cui viviamo sia la troppa indifferenza. Questo mi dispiace un casino. Spesso si dice, giustamente, che il problema è il razzismo, l’economia, la politica e così via. Il vero problema è l’indifferenza. Ormai ci si guarda male tra compaesani, tra italiani e italiani, figuriamoci tra nazioni e culture diverse. Però allo stesso tempo ci sono molte persone che se ne stanno accorgendo. Molti giovani, soprattutto, spingono ad essere più solidali possibili: questo è un bene e ne sono felice.
Il mio invito, quindi, è di non essere indifferenti, dire sempre la propria, non restare mai zitti e farsi sentire sempre il più possibile. Che sia con la scrittura, con la voce, con i dipinti, con i libri, il messaggio deve essere sempre quello. Devi lasciare qualcosa di te nel mondo perché un domani non ci saremo più. Se non lo fai ora che sei vivo, quando sarai morto non potrai fare più di tanto.»
L’arte, quindi, potrebbe cambiare la società?
«Non la cambia ma la influenza, secondo me. Può spingere a cambiarla. Ma per avere un vero e proprio cambiamento serve quella sorta di scatto mentale che deve avvenire in ognuno di noi. L’arte può aiutare molto. Prima di tutto deve partire da noi stessi, altrimenti non si va da nessuna parte, non si cambia.»
È la società che non dà importanza a un personaggio che non si incoraggia,
100Bronx
la verità è che non fa abbastanza, ma a questa età ne vorresti un’altra!
Mariangelo D’Alessandro
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