Liz Taylor: la “Giovanna d’Arco dell’AIDS” che in pochi conoscono
Il 23 marzo di dieci anni fa ci lasciava “la diva dagli occhi blu” che ha stregato schermi, tabloid e intere generazioni di cinefili (o anche solo di voyeur), rapiti dal magnetismo cangiante di quelle iridi viola.
E come se non bastasse l’esercizio esperto della sua arte, insieme alla burrascosa vita coniugale e all’erotismo gentile del suo “corpo elettrico”, a rendere Liz Taylor icona eterna nella genealogia dello star system hollywoodiano c’è la sua (pre)matura passione civile e il fiero attivismo in difesa della comunità LGBTQ+.
In un tempo in cui questo acronimo neanche esisteva per raccontare efficacemente le minoranze sessuali e in una stagione politica dove HIV si leggeva “gay disease”.
È facile ricordarla nel megacolossal di Mankiewicz avvolta nelle vesti dorate di Cleopatra(1963), o nelle vulcaniche, blasfeme nevrosi della cinica Martha in Chi ha paura di Virginia Woolf? (1966), superba interpretazione di un gentil sesso archetipico nell’America degli anni ’60, che le valse un meritatissimo Oscar. Quello che non tutti sanno, invece, (in barba all’appassionante “saga” di passeggiate in bianco e fiori d’arancio collezionate nei suoi otto matrimoni, che faceva tanto gola alla stampa più gossippara) è la genuina vocazione di Elizabeth Taylor per l’attivismo, che le ha fatto guadagnare il titolo di “Giovanna d’Arco dell’AIDS” nei primi anni ’80 e di nuova “Gay Icon” nel 2011 in un articolo sul The Guardian.
Un impegno di cui l’attrice ha dato straordinaria prova nei suoi ultimi 25 anni di vita, tra audaci public speech a sostegno dell’uguaglianza civile, massicci fundraising per potenziare ricerca e sensibilizzazione all’HIV e una sincera empatia verso quelle “devianze” sessuali che per lei altro non erano che cari amici, colleghi di vecchia data e intimi complici (tra cui i volti noti di Montgomery Clift, Jimmy Dean e Rock Hudson). Una normalizzazione del same-sex desire di una modernità sconcertante per un’icona di quell’epoca, che rivela la fierissima devozione della Taylor ad una causa allora ancora sotterranea, insabbiata dal bigottismo di una terroristica caccia alle streghe che vedeva nell’omosessualità un satanico capro espiatorio del morbo occidentale.
Ma andiamo per tappe…
Il primo atto dimostrativo di Liz risale al 1985, quando si incaricò di ospitare una cena di fundraising per l’AIDS in collaborazione con l’AIDS Project Los Angeles (APLA). Un evento senza precedenti storici nato per sostenere la divulgazione scientifica e per alimentare consapevolezza su quella piaga sociale, oltre che sanitaria. Iniziativa che, non a caso, coincise proprio con la notizia della malattia di Rock Hudson, amico intimo e co-star della Taylor a cui venne diagnosticato quel male tutto americano.
Nell’anno successivo, e in più di un’occasione, il potente appello dell’ex diva a Capitol Hill al cospetto del Congresso, in risposta all’indifferenza nazionale all’epidemia di AIDS e al tiepido riscontro delle istituzioni statunitensi per arginare la crisi. Un atto di coraggio notevole che le valse il titolo di “eroina della gay community” e a cui seguì, nel 1991, il suo intervento all’ottava International AIDS Conference, in cui disse del Presidente Bush, con tono provocatorio, che non era neanche sicura lui sapesse come pronunciare la parola AIDS. Poi la scelta di fondare l’Elizabeth Taylor AIDS Foundation (ETAF) per fornire assistenza diretta e cure a chi fosse colpito dal “gay cancer”.
Da qui fu inserita tra le più autorevoli personalità dello showbiz ad essersi dedicata alla lotta per l’uguaglianza dei diritti civili, combattendo stigma sociale e quella criminosa indifferenza dei WASPs con grande abnegazione e schiettezza. Nel 2007, infatti, durante un’intervista rilasciata per l’Interview Magazine, si disse profondamente disgustata da quell’ostilità a stelle e strisce e dichiarò apertamente quanto il mondo fosse in debito con la comunità omosessuale per lo straordinario lasciato culturale di musicisti, pittori e creativi bollati come “fags”. Menti illuminate senza le quali il mondo oggi sarebbe un luogo scevro di bellezza.
L’efficacia delle sue battaglie nasce dall’intuizione dell’impatto che un volto così morbosamente ricercato come il suo potesse avere sulle zone d’ombra dell’America di allora, terra di libertà scivolose e dolorosi paradossi. Elizabeth comprese da subito il potenziale di quella fama così asfittica, da cui era impossibile liberarsi, ma che poteva convertirsi in un involucro adamantino risonante di voci e rivendicazioni silenziate. Un potente megafono che restituisse uno spazio d’espressione e una dignità a quei corpi invisibili e virulenti, sovraesponendo la loro fragilità e rendendola così ordigno esplosivo per rovesciarla dall’interno. “Sapevo che con il mio nome avrei potuto fare la differenza. Volevo che la mia eredità fosse questa, piuttosto che il neo che ho sulla guancia”.
Nel raccogliere milioni di dollari per la ricerca e la cura all’AIDS, la Taylor ha rappresentato così l’avanguardia dell’iconografia gay in qualità di attivista glam ante litteram, riuscendo persino ad eclissare altre gay celeb come Judy Garland, Bette Davis, Barbra Streisand, Cher e Madonna. Ha mostrato un nobilissimo impegno umanitario durante un momento storico in cui la reazione più comune era paura o avversione, impegno per cui ha ricevuto massime onorificenze da Bill Clinton e un Vanguard Award all’undicesima edizione del GLAAD Media Awards (Gay & Lesbian Alliance Against Defamation). Perché, come disse durante il suo discorso di ringraziamento, «Non c’è nessuna “gay agenda”. Si tratta di una “human agenda”. Lunga vita all’amore!».
Francesca Eboli