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Fotografie dal presente: Covido di Mimmo Borrelli

Il teatro, come il mondo dell’arte in generale, è in difficoltà. Per quanto ogni teatro possa attrezzarsi e darsi da fare come meglio può per sopravvivere, per non allontanarsi dal proprio pubblico, per non farsi dimenticare dalla comunità ma sopratutto dallo stato, la situazione di paralisi dello spettacolo non può non ridurre in agonia quella che era, ormai dopo decenni di tagli e mortificazioni, una forte sofferenza. 

Eppure in momenti drammatici e avversi come questo la sfida, la vera e propria impresa è quella di trasformare la sofferenza in arte, l’agonia in poesia. 

Per Diario della quarantena del teatro Stabile di Napoli, Mimmo Borrelli riesce nell’impresa nei 9 minuti dell’inedito “COVIDO”.

Siamo tutti reclusi, e in questa condizione chiamati a evocare e a ripensare, in assenza, nel teatro della nostra mente, il luogo della vita, i luoghi della vita.

Eppure Pascal, grande filosofo tragico, ha scritto che tutta linfelicità delluomo deriva dal fatto che gli uomini non sanno stare da soli nella propria stanza. Ecco, ora che siamo tutti desolatamente soli nelle nostre stanze, e infelici, mi è sembrato opportuno sollecitare amici e amiche, attori e attrici, scrittori e scrittrici, registi e registe, a inviare al Teatro Mercadante un frammento dei loro pensieri ai tempi del coronavirus, […]

Questo è l’invito di Roberto Andò, neo-direttore del teatro Stabile di Napoli

Per saperne di più https://www.teatrostabilenapoli.it/teatro-a-casa/

Mimmo Borrelli, protagonista e regista di alcuni degli spettacoli più suggestivi e potenti degli ultimi anni risponde all’invito, traducendo pensieri e inquietudini legate al momento storico in versi, in rime alternate, cupi e pieni di inquietudine, che rendono in modo esatto e intenso lo stato di sconforto e di terrore con cui l’Italia, ormai da Febbraio, ha dovuto fare i conti. 

Per Mimmo Borrelli il virus è un mare, un’acqua che, seppur quieta, annega. Questa ondata con la potenza del suo urto scuote le anime, strappa alla civiltà le sue basi fondanti: il covid porta con se l’indifferenza per le altrui vicende, la diffidenza e il rancore nei confronti dello straniero. Al tempo del covid si muore da soli, senza che l’amore di un caro ci possa dire addio: una morte a- dignitata è quella che ci attende, un avvoltoio da qualche parte aspetta il suo pasto, fatto di qualunquismo e finta solidarietà, ostentata commozione, false notizie.

Oh figlio mio, credevo/ di poter scrivere cose più belle/ e invece non sapevo/ che distolgo il volto le stelle. Il futuro visto nel passato è sempre roseo: ma il presente restituisce una cruda verità, un dispiacere profondo e dolente per il futuro che si desiderava e che non c’è stato, per il presente infame regalato ad un figlio appena nato. Frutto amaro del presente è il dolore e il lacerante senso di colpa di chi sa di non aver provato pietà: per la terra, per ogni uomo annegato, per ogni pezzo di plastica buttato, per ogni malaffare compiuto. L’umanità che si presenta agli occhi innocenti di un figlio appena nato è solo lo specchio/ di ogni fallimento. E allora, il futuro visto dal presente non promette alcuna corona, alcuna discendenza: non c’è un trono per un’umanità ormai vecchia e demente.

La voce cupa di Borrelli recita una lingua, come sempre, barocca, dantesca nella sua mescolanza di suoni e registri, tecnicismi e male parole, bestemmie e invocazioni, malinconia e terrore. Non c’è asilo per la speranza in Covido, non c’è spazio per la fiducia. Covido è un j’accuse violento e disperato rivolto all’umanità tutta: ognuno ha la propria responsabilità rispetto al presente, ognuno nel passato ha costruito male il suo futuro.  

Le musiche e le immagini di Antonio della Ragione enfatizzano la drammaticità e l’inquietudine del testo, si fondono con i rantoli e con la voce rimbombante di Borrelli e restituiscono tutta l’angoscia del momento. 

Mimmo Borrelli, che forse non ha potuto regalare un presente adeguato al suo bambino, ci regala un testo su cui riflettere, una fotografia su cui costruire il cambiamento. 

Valentina Siano

Valentina Siano, classe ’88, professoressa per amore, filologa per caso. Amo la scrittura come si amano quelle cose che ti riescono al primo colpo, non sapresti dire bene come. Scrivo di cultura e spettacolo perché amo il cotone verde del mio divano e il velluto rosso dei sediolini dei teatri. Leggo classici, divoro serie, colleziono sottobicchieri. Sono solo all’inizio della mia scalata alla rubrica gossip di Vanity Fair.

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